[scrive per noi] – 321Clic – La prima volta – IL LAVORO E L’ACCIAIO

IMG_0609Prima di tutto ringrazio Wish aka Max per l’invito a scrivere qui, lo spunto è stato un argomento che mi tocca molto da vicino, un fil rouge che mi lega al suo post.

Riguardo al lavoro, mi sono sempre ritenuta fortunata: occupata ininterrottamente da venticinque anni, al caldo d’inverno, al fresco d’estate e con un mestiere che mi appassiona. Non è piovuto dal cielo: c’è voluto impegno e scelte a volte scomode, ma ne è valsa la pena.

La prima volta che ho varcato i cancelli della fabbrica avevo diciannove anni, una ragazzina fresca di scuola catapultata in un mondo di metalmeccanici. Mi son trovata subito bene, e ancora oggi sniffo l’odore di saldatura e guardo con amore quei rotoli di acciaio che vedo transitare da un reparto all’altro, neri e opachi all’andata, lucenti e brillanti al ritorno. All’interno di questa acciaieria, io sono un’informatica dell’area più tecnica. Mi nutro di bit, di manuali, del fare ogni giorno qualcosa di nuovo, delle sfide a tutto ciò che non conosco. Sguazzo nei problemi dimenticando l’orologio e la fame, di contro morirei affogata nella routine di un lavoro sempre uguale a se stesso.

A luglio 2014 è iniziata la vertenza, ne hanno parlato anche giornali e TV: un mese e mezzo di sciopero, la redazione di Gazebo in contatto h24, le manganellate a Roma, la protesta a Bruxelles, tutto vissuto in prima persona. Non è servito a niente, i sindacati si sono liquefatti insieme al rottame nei forni, disfatta su tutta la linea: quattrocento dipendenti mandati a casa con pochi spiccioli in tasca, impatto sull’indotto ancora da valutare, una fabbrica che si sta sgretolando come l’asfalto che ho fotografato sotto la torre del BA. Per la prima volta ho iniziato a temere per il mio posto di lavoro. La reazione a pelle è stata di smarrimento, mi sono sentita mancare la terra sotto i piedi, perché qui dentro ci sono cresciuta, e l’acciaio ce l’ho fin dentro alle ossa. Poi ho cominciato a ragionare, perché questa brutta esperienza poteva trasformarsi in una opportunità, la spinta a fare quel che non avevo mai avuto il coraggio neanche di pensare. Perché questa è la città dell’acciaio e di nient’altro. Solo in pochi sanno che qui c’è la cascata più alta d’Europa. Non c’è cultura, non ci sono argomenti di discussione che vanno oltre il derby, e io mi sento stretta e fuori posto. Ho scritto il mio primo curriculum e ho inziato a cercarmi un altro posto.

Un mese fa l’ufficio del personale mi manda a chiamare: “Abbiamo necessità di parlarle riguardo alla sua posizione in azienda”, un’altra prima volta. I dieci colleghi dell’IT che hanno ricevuto la stessa mail prima di me sono oggi distribuiti in vari uffici di stabilimento: magazzino, amministrazione, qualità. Mestieri lontani anni luce da quello che abbiamo sempre fatto, gente che a cinquant’anni si è ritrovata a dover ripartire da zero con un bagaglio di professionalità azzerato a tavolino. Nessuna possibilità di appello, l’unica alternativa è andarsene (a mani vuote, adesso), e non tutti se lo possono permettere: per chi ha un mutuo e figli a carico c’è poco da scegliere. Vero è che lo stipendio oggi c’è, ma fino a quando?

Mi presento all’orario stabilito con un cocktail di ansia ed incertezza che mi scorre nelle vene. Il delegato del personale che ho davanti sorride e mi informa che dal giorno successivo sarò l’assistente del nuovo direttore dell’area informatica. La motivazione di base è che parlo un ottimo inglese. In questa multinazionale pare sia una rarità, quando la sua conoscenza dovrebbe far parte del bagaglio culturale di chiunque al pari della ricetta per la carbonara. La nonchalance con cui mi viene comunicato il cambiamento è la stessa che si userebbe per gettare un fogliaccio nel cestino. Lo guardo incredula, e provo ad obiettare che forse nello scegliere me non è stato considerato il fatto che sono l’unica sistemista SAP rimasta e ci sono parecchi lavori in corso. Mi risponde che questo è un problema dell’azienda, non mio. Vorrei poter dire che so bene non sarà così, ma posso solo abbozzare un “Quand’è che devo iniziare?” Me ne sono andata con un macigno sullo stomaco e la magra consolazione di restare in area IT.

E quindi, esattamente come preventivato, faccio doppio lavoro, con gli orari del mio capo e il mio solito stipendio. Il telefono squilla in continuazione tra chi cerca lei e chi me. All’occorrenza, tolgo il cappello da segretaria e rimetto quello da sistemista, e se anche c’è da soffrire non mi importa, la mia professione è quella e non ho nessuna intenzione di mollarla, men che meno in questo momento.

Perché durante la pausa pranzo, mangio qualcosa di rapido e uso il resto del tempo per continuare a cercare il lavoro che voglio e nella destinazione che ho scelto. Lontano da qui. Ci sono buone possibilità di riuscirci, e sarà un’altra prima volta.