Lettera aperta, lettera morta

(Ovvero una storia in libera citazione)

Quando penso che morire lentamente è un modo di vivere, un modo di scegliere, di rinunciare, ma non di certo di dare il cuore, allora – caro Pablo –  hai torto marcio. Allora è torto il giudizio, e distorto il senso.
Dimmi che ti hanno citato erroneamente, così tanto da seccarti la bocca.

Dimmi: quando ci rubano qualcosa, potremmo mai pensare che forse spettava ad altri?

Tutto hai inghiottito, come la lontananza.
Come il mare, come il tempo. Tutto in te fu naufragio!

Era l’ora felice dell’assalto e del bacio.
L’ora dello stupore che ardeva come un faro.

Ansietà di nocchiero, furia di palombaro cieco,
torbida ebbrezza d’amore, tutto in te fu naufragio!

Ti attaccasti al dolore, ti aggrappasti al desiderio.
Ti abbatté la tristezza, tutto in te fu naufragio!

Come una coppa albergasti l’infinita tenerezza,
e l’infinito oblio t’infranse come una coppa.

Era la sete e la fame, e tu fosti la frutta.
Erano il dolore e le rovine, e tu fosti il miracolo.

Ogni volta che ho urlato l’ingiustizia e l’ho pagata come se fosse giusto pagare per un pensiero espresso… Maledico quel giorno che ho confuso un aggettivo, e l’ho fatto mio. Lì è cominciata la guerra. Così mi dicevi

Non sei mai riuscita a frugarti nella tasca,
non era possibile la tua visita senza rosse vesti:
senza il tappeto aurorale e di chiuso silenzio:
senza gli alti o sepolti patrimoni di pianto.
Non ho potuto amare in ogni essere un albero
col suo breve autunno sulle spalle – la morte di mille foglie ,
tutte le finte morti e le resurrezioni
senza terra, senza abisso:
ho voluto nuotare nelle più larghe esistenze,
nelle più libere foci,
e quando, a poco a poco, l’uomo cominciò a negarmi
e a chiudermi passo e porta perché non toccassero
le mie mani originarie la sua ferita inesistenza,
allora di strada in strada andai, di fiume in fiume,
di città in città, e di letto in letto,
e la mia maschera salmastra attraversò il deserto,
e nelle ultime case umiliate, senza lampada, senza fuoco,
senza pane, senza pietra, senza silenzio, solo,
vagai, morendo di mia stessa morte.

Per ogni volta che  al contrario  non ho giudicato abbastanza e sono rimasta a guardare senza che si muovesse un solo angolo di pelle sotto i morsi e sono stata fiera di tacere di fronte al bello, al brutto, allo specchio, al gioco. Per tutte le storie in cui ho perso e se non avessi perso non avrei guadagnato la seconda possibilità. Ogni volta che ho perso e basta, e non ci sono campi di battaglia che lo ricordano, armi che lo raccontano, solo coltelli poggiati delicatamente in petto o sulla mano…

Non tornerai dal fondo delle rocce.
Non tornerai dal tempo sotterraneo.
Non tornerà la tua voce indurita.
Non torneranno i tuoi occhi forati.
Io parlo dalla vostra bocca morta.
Attraverso la terra unite tutte
le vostre labbra tacite e disperse
e dal profondo parlatemi,
per tutta questa  lunga notte,

come se io con voi fossi ancorato,
ditemi tutto, catena a catena,
anello ad anello, e passo a passo,
affilate i coltelli che serbaste,
posatemeli in petto e nella mano,
come un fiume di gialle saette,
come un fiume di tigri sepolte,
e lasciatemi piangere, per ore, giorni, anni,
per età cieche e secoli stellari.
Datemi il silenzio, l’ acqua, la speranza.
Datemi la lotta, il ferro, i vulcani.
Unite a me i corpi come calamite.
Accorrete alle mie vene, alla mia bocca.
Parlate con le mie parole e col mio sangue.

Ogni volta che ho immaginato l’uomo che amavo circondato dal buio e non gli ho lasciato il tempo di spiegare che era la sua luce sconosciuta, mi sembrava che usasse le tue parole per dirmi


Se saprai starmi vicino,
e potremo essere diversi,
se il sole illuminerà entrambi
senza che le nostre ombre si sovrappongano,
se riusciremo ad essere “noi” in mezzo al mondo
e insieme al mondo, piangere, ridere, vivere.
Allora sarà amore
e non sarà stato vano aspettarsi tanto.

E ora che mi domando dove possa portare tanto dolore, e prima, quando me lo chiedevo della gioia, puoi confessare che hai vissuto, tu?

Quando ho preteso che le parole che mi hanno regalato diventassero mie, ma la regola dei doni non vale con le sillabe, e così ogni musica e ogni immagine e ogni verso è di tutti. Se lo merito io lo merita chiunque, non ho eletto nessuno a nemico. Lui lo sapeva, quando mi ha urlato

Le mie parole piovvero su di te accarezzandoti.
Ho amato da tempo il tuo corpo di madreperla soleggiata.
Ti credo persino padrona dell’universo.
Ti porterò dalle montagne fiori allegri, copihues,
nocciole oscure, e ceste silvestri di baci.
Voglio fare con te
ciò che la primavera fa con i ciliegi.

Quando penso che vorrei strappare dalle labbra la voce giusta del suo vocabolario, che soppesa il mondo e te lo vende al chilo, o che se lo gioca a dadi. Stupirle con un bacio che non si aspettano. Quando penso che vorrei essere dall’altra parte del mondo a sentirgli raccontare orienti e orizzonti che non vedrò e strappargli così anche gli occhi e farli miei. Se non questo, allora il deserto…

Gli occhi hanno sete, perchè esistono i tuoi occhi.
La bocca ha sete, perchè esistono i tuoi baci.
L’anima è accesa di queste braccia che ti amano.
Il corpo, incendio vivo che brucerà il tuo corpo.
Di sete. Sete infinita. Sete che cerca la tua sete.
E in essa si distrugge come l’acqua nel fuoco.

Eravamo in due all’inizio del tempo e ci hanno diviso a metà? Ci capitiamo o ci scegliamo? non sono pratica di favole per principianti e di filosofi sepolti. Mi sembra di essere tornata in un’immensa bolla d’acqua maligna, niente a che fare con la placenta calda e lucida di una volta. Forse ogni amore arriva e se ne va per sconvolgerti l’ordine del mondo.

Lascia che ricordi come eri allora, quando ancora non esistevi

Per ogni carezza ruvida di inverno e liscia d’estate, per ogni libreria persa nel freddo, per ogni lacrima che è scesa su consonanti strane e vocali sbagliate…


T’amo senza sapere come, né quando, né da dove,
t’amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti
che così, in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno
.

Per ogni uomo che ho sentito citare te, Neruda, e per ogni donna che ha pensato fosse ingenuo farlo, patetico deflorarsi col primo libro letto.

Amo ciò che non ho. Tu sei così distante.
La mia noia combatte coni lenti crepuscoli.
Ma la notte giunge e incomincia a cantarmi.
La luna fa girare la sua pellicola di sogno.

Infine. A chi crede di poter scegliere con la misura degli uomini perché non ve ne sono altre, a chi cavalca senza sbagliare una mossa, e non ha bisogno di mani e di baci quando cade, a chi crede di andare via solo perché non può toccare le cose che prima possedeva, a chi non saprà di vivere in luoghi che ha baciato e che non sono quelli che calpesta, dentro una pelle sempre più asciutta.

A loro, un sonetto acefalo.

Non voglio che vacillino il tuo riso né i tuoi passi,
non voglio che muoia la mia eredità d’allegria,
non bussare al mio petto, sono assente.
Vivi nella mia assenza come in una casa.

È una casa sì grande l’assenza
Che entrerai in essa traverso i muri
E appenderai i quadri nell’aria.

È una casa sì grande l’assenza
Che senza vita io ti vedrò vivere
E se soffri, amor mio, morirò un’altra volta.

Adesso muori di nuovo. Non ci sono canzoni abbastanza disperate, maestro. Se fossi qui ti rassegneresti anche tu agli angeli che cadono su strade senza una meta.

O diresti che è questo il bello, abbandonato come i moli nell’alba.

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Schizzo sulla morte di Pablo Neruda, dell’artista siciliano Renato Guttuso