[Scrive per noi] – I sei sensi – Gaberricci- Breve storia della sfiducia nella vista
Perché è una verità incontrovertibile: gli uomini hanno scarsa fiducia nella propria vista. Anche voi, ne sono sicuro, non avrete saputo fare a meno di soffermarvi sulla prima frase di questo testo: “ma ho le traveggole, o questo qui ha scritto davvero incontrovertibile? Così, in un blog di libera lettura?”.
È un atteggiamento curioso, non credete? Soprattutto, vista l’importanza che questo senso ha per tutti noi o, per meglio dire, che tutti noi gli attribuiamo (come si può notare dal corsivo, anche il nostro linguaggio, che è un importante indizio del nostro modo di ragionare, lo conferma*). Fate una ricerca statistica e chiedete ad un campione di persone sufficientemente ampio di elencarvi i cinque (o i sei, o i quattro, o i quantiritenetechesiano) sensi: senza dubbio, al primo posto di molte liste comparirà lei, assisa sul trono di “senso più importante”. Anche il “manifesto” del tema non – bisettimanale di questa non – bisettimana lo dimostra. In prima posizione lì, in alto a sinistra, non c’è la lussuriosa lingua virata ai toni del viola e del ciano, o la poliziesca impronta digitale: c’è il dettaglio di un occhio. E questo, benché la vista sia, da qualunque angolazione si voglia considerare la questione*, l’ultimo tra i sensi: l’ultimo ad essere comparso filogeneticamente, l’ultimo a farsi vivo durante l’ontogenesi (che ripete la filogenesi), l’ultimo, almeno in italiano, perfino per quanto concerne l’ordine alfabetico…
…E l’ultimo, come dicevamo, in quella speciale (e del tutto ipotetica: ma credo di non sbagliare) classifica che misura la fiducia che gli uomini accordano a quei canali di comunicazione con il cosiddetto mondo esterno che sono i sensi. Non saprei spiegare i motivi di questa incoerenza, né d’altronde questo rientra tra gli intenti di questo mio povero contributo; comprendo, tuttavia, perché tutti noi abbiamo coi nostri occhi lo stesso tipo di rapporto che avremmo con un marito (o una moglie) che già ha avuto modo di dimostrarsi fedifrago, e che tutte le sere fa tardi con la scusa del lavoro, degli amici che l’hanno trattenuto, del vicino invadente e chiacchierone del piano di sotto: ponderiamo ogni informazione che riceviamo da loro, alla ricerca di incongruenze o palesi errori. Finendo, a volte, per trovarne anche dove non ce ne sono. E no, non c’entra niente Eisenstein, non c’entra niente la teoria della relatività, non c’entrano i quanti, non c’entra il teorema di Godel né Popper né tutto il resto che persone più colte di me potrebbero portare a dimostrazione che tale scarsa stima è nata nel Novecento (come se tutti fossero abbonati a Fisica Oggi e Mantieni viva la tua conversazione con argomenti curiosi tratti dalle più recenti ricerche scientifiche. Sottotitolo: Non è necessario che voi capiate). Semmai, è vero il contrario (e se ne dirà più sotto): ed infatti, il surrealismo figurativo ha dovuto aspettare, per venire al mondo, gli anni venti del Novecento, ed ha avuto anche scarsi precursori, per lo più pittori che si sono ispirati a quello narrativo (draghi, streghe, unicorni e tutto il resto) che avrà, suppergiù, intorno ai duecentomila anni. Curiosamente, la stessa età della specie Homo sapiens.
No: tutto è cominciato, laggiù in Texas, talmente tanto tempo fa, che si era ancora più vicini alle Cosmicomiche, che ai miti della creazione degli Apache; ben prima, ad ogni modo, che qualcuno chiamasse quel posto Texas, o che nascesse il primo uomo che parlava la lingua in cui tàysha, da cui Texas deriva, significa amico. È capitato ad un nostro antenato, certo ispido, tozzo, sporco più di noi, ma indiscutibilmente della nostra stessa specie, anche così, ad esaminarlo sommariamente*. Egli cammina solo, il sole cocente, che già ha alcuni milioni di anni di vita durante i quali ha reso arido tutto ciò che c’è intorno a lui, gli frigge le cervella, e lui arranca, tergendosi di tanto in tanto il sudore che dovrebbe dargli sollievo e che, invece, gli fa sembrare ancora più secche la sua pelle e la sua bocca. Cerca intorno un riparo, anche uno minimo, una roccia appena più alta di lui, un albero testardamente sopravvissuto in mezzo a quella desolazione, una gola in cui andarsi a riposare un poco, ma è da almeno trentaduemilasettecentotrentasei passi (non li ha contati perché non sa contare, ma è una stima attendibile*) che non vede altro che quel maledetto deserto, uguale a se stesso in ogni direzione, da dove il sole sorge a dove tramonta, e presto creperà, e la sua carcassa si essiccherà, e lui…
All’improvviso, eccolo: un piccolo boschetto, lì, alla sua destra (non è un’allucinazione, sarebbe troppo facile). Non più di quindici alberi, nient’altro che semi sparsi dal vento, attecchiti per scherzo, germogliati per caso, irrigati da un ruscelletto che assomiglia ad un miracolo, ed ora eccolo, un riparo che pare fatto apposta per lui, in cui potrà trovare riposo e, forse, addirittura cibo ed acqua per proseguire nel suo viaggio. È la sua speranza che lo fotte. La sua speranza, quel senso di esaltazione tanto simile ad un’ebbrezza ben più pericolosa di quella indotta dall’alcol, e, soprattutto, i suoi occhi.
Che gli dicono che qualcosa di tanto bello deve, intanto, essere vivo. E che, be’, in fin dei conti, se è così bello, non può essere pericoloso: dev’essere suo amico. Che, poi qualcosa di tanto bello, tanto colorato, tanto… direbbe allegro, se conoscesse la parola… oh, che cazzo, lo hai visto, è bello, vivo, amico, vai ed afferralo, no?
Non fidatevi dei vostri occhi, direbbe la lapide di quell’uomo, se egli ne avesse avuta una. Morire di paralisi è ancora più brutto che morire di sete.
D’accordo, d’accordo: la storia non è stata ben congeniata, e per di più è scritta male (il che è più grave). L’uomo era solo, a chi avrebbe potuto raccontare di non fidarsi di quanto raggiunge gli occhi e pare innocuo, affascinante, desiderabile? (obiezione corretta… fintanto che non si consideri il mimetismo batesiano) Inoltre, volendo transigere sulle tue scarse capacità narrative che non ti hanno fatto prevedere un secondo personaggio che possa farsi narratore e dire a tutti di stare lontani dal Micrurus Fulvis, non starai attribuendo capacità cognitive un po’ troppo sviluppate a uomini che si nutrivano a botte di caccia e raccolta, che avevano come obiettivo nella vita il sopravvivere dall’alba al tramonto (e magari anche nel sonno), che sapevano a malapena accendere il fuoco e che, quando non si accontentavano delle grotte offertegli da Natura, abitavano in catapecchie che bastava un colpo di vento a portar via? Non credi che questi avrebbero pensato, semplicemente, stiamo lontani dal serpente corallo, e non i nostri occhi sono nati per farci scherzi? Forse. Ma, in fin dei conti, questo non è uno studio accademico, ed insomma consentitemi anche di fare un po’ di colore; ed ad ogni modo, ve lo riconosco, forse il problema non è così antico, ma è innegabile che il pregiudizio esistesse, per quanto in tutt’altra area del mondo, almeno nel IV secolo avanti Cristo, quando un anonimo collettore di opere precedenti (si dice, risalenti addirittura ai tempi del Re Davide) scrisse: una donna bella e terribile come un esercito schierato a battaglia.
Circa cent’anni prima, un uomo nato lontano dalla Gerusalemme dove quelle parole vennero consegnate alla memoria capricciosa del tempo, ma anch’egli in quella parte di Asia che si affaccia sul Mediterraneo, dettò parole che, apparentemente, contraddicono la mia tesi: “gli uomini si fidano delle orecchie meno di quanto si fidano degli occhi”. Riflettendoci meglio, tuttavia, e ricordando che, quando un autore parla degli altri uomini, ci sta in realtà dicendo qualcosa su un singolo uomo, e precisamente su se stesso (cfr. Borges, “Pascal”, in “Altre inquisizioni”), piuttosto che sull’intero consesso dell’umanità (e sì, mi rendo conto che forse questo testo fa altrettanto*), non è disonesto né azzardato concludere che quell’uomo, Erodoto di Alicarnasso, volesse in realtà dirci che era lui, e lui soltanto, a fidarsi più dei suoi occhi che delle sue orecchie; ma un uomo può fidarsi pochissimo delle sue orecchie, e poco dei suoi occhi, e dunque considerare questi ultimi più affidabili delle prime, pur senza riporre grande stima in nessuno dei due. Erodoto fu senza dubbio di questa specie, se è vero, come è vero, che il terzo momento del suo metodo storiografico, dopo l’opsis (guardare) e l’acoè (ascoltare), era lo gnomè, cioè il giudicare con spirito critico. In questo, senza dubbio, come in molto altro, egli sopravanzò tanto, in modernità, i suoi contemporanei, da risultare, come si dice con espressione abusata, troppo avanti per loro. E non solo: Plutarco, storico di cinquecento anni successivo, scriverà contro di lui, ne La malignità di Erodoto;ed anche noi, pur essendo costretti, dai programmi ministeriali, a ritenerlo un grande autore, non riusciamo ad applicare pienamente il suo metodo.
Che gli occhi possano ingannare, tra l’altro, è una realtà con cui gli uomini, quasi tutti, devono aver imparato a convivere ben presto: addirittura è stata creata un’arte, una delle mie preferite, quella del gioco di prestigio, che si basa appunto sul fatto che riuscire nell’impresa sia fin troppo semplice (credetemi: se conosceste i trucchi che usano i migliori tra gli illusionisti, vi cascherebbe la mascella sul pavimento). Nel Novecento (ecco che ci torniamo, come promesso), il grandissimo Maurits Cornelis Escher ha usato le scoperte della stupefacente matematica a lui contemporanea, e quelle della scuola filosofica della Gestalt, per mettere a punto opere (riprese poi in tantissima cultura popolare dei nostri tempi: da Shutter Island a Dylan Dog a Berserk), che sfidano la logica e paiono irridere l’osservatore, ma che credo testimonino, semplicemente, di come il tema della “beffa dello sguardo” sia tanto banale, da aver avuto bisogno di duecentomila anni di storia dell’arte, e di un genio dotato di tecnica perfetta, per divenire di interesse artistico. Un po’ come gli squarci nella tela di Fontana, per intenderci.
Se siamo ancora qui a parlarne, comunque, significa che quei quasi, hanno saputo essere quasi sempre più influenti di tutti gli altri: e la voce di chi parlava del dramma dell’imbroglio della vista ha risuonato sempre più forte di quella di chi diceva che essa, per quanto sgradevole, è una componente inevitabile ed anzi indispensabile del nostro modo di essere. Come il dolore: e le conseguenze nefaste della sindrome di insensibilità congenita al dolore dovrebbero indurre molti a riflettere, a questo proposito.
Essi hanno sempre saputo come rendere la propria voce incantevole ed ammaliante quanto il flauto di un incantatore di serpenti: e, con buona pace del padre della storia, è più breve la via che giunge al cervello passando per l’orecchio, che quella che passa per l’occhio (e non parliamo degli altri sensi: la memoria scossa da un profumo nella Recherche di Proust, le donne che “prendono gli uomini per la gola”, le carezze di una madre che fanno credere al bambino che nell’armadio non sia nascosto l’uomo nero, il cui feticcio ha agitato per convincerlo ad andare al letto).
Pensiamo a tutti quanti quei (grandi) autori che hanno scritto contro il fidarsi dei propri occhi, che hanno abbracciato la teoria secondo cui il mondo che vediamo non è altro che un mero riflesso, un insieme di simboli a cui non concedere che un distratto sguardo, quanto basta per avere gli elementi su cui lavorare per raggiungere l’altrove.
Platone, ovviamente, per cui il mondo fisico non era che materia grezza plasmata da un Dio incapace che osservava (ma evidentemente anche i suoi occhi dovevano essere offuscati) un mondo superiore, di noumeni, idee perfette e pure nella loro essenza (e Plutarco, il grande avversario di Erodoto di cui dicevamo, era per l’appunto un platonico); ma anche Dante e tutti i grandi allegoristi medievali, per cui far crollare le mura di una città come aveva fatto Giosuè non significa fare la guerra, sbudellare uomini, rendere orfani bambini e violentare donne innocenti, ma prefigura eventi della vita di Cristo, su su fino a Baudelaire ed alle mille corrispondenze da cogliere nel mondo: corrispondenze che travalicano (o dovrebbero travalicare) quanto all’uomo dicono tutti i sensi singolarmente intesi, è vero; ma non è forse l’invenzione della sinestesia un modo per liberare l’arte poetica dalla schiavitù della pagina e, dunque, degli occhi che devono scorrerle sopra? Rilancerà Paul Verlaine, dopo neppure vent’anni (la prima edizione dei Fiori del male è del 1857, e l’opera in questione del 1874, anche se fu pubblicata solo otto anni dopo), nel primo verso di una poesia intitolata, appunto, L’arte poetica: “la musica, sopra ogni cosa!”, relegando tutto il resto, con spregio, al campo della letteratura. Non si può poi tacere il nobilissimo esempio di Montale che, pur sdegnosamente ateo (si legga, a tale proposito, la splendida Come Zaccheo), ammonirà, in Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale coloro che credono che “il mondo sia quello che si vede”.
Ma pensiamo anche alla direzione opposta, verso la quale si sono mossi tanti pensatori cresciuti, curiosamente, all’ombra dell’empirismo. Messi di fronte alla scoraggiante verità che non tutto quello che vediamo è reale, questi reagiscono convincendosi che nulla di quello che vediamo è reale: l’altro non esiste, il mondo non esiste, neanche noi esistiamo, il tutto non è altro che un fascio di nostre sensazioni, anzi, percezioni, ovviamente fallaci; essere è percepire, ovviamente sbagliando. Questa scuola di pensiero, che ha ancora oggi molti sostenitori (ne conosco personalmente uno e penso che gli farò leggere questo articolo), forse in virtù del fatto che da un’idea di questo tipo parte il campione d’incassi Matrix, collega con un insospettabile filo rosso (che ovviamente non è rosso: sono solo io che lo vedo così; anzi, esiste una percezione che mi fa credere di esistere e di percepire un filo rosso, eccetera) David Hume con Karl Popper: che altro significa, infatti, porre il principio di falsificabilità (secondo cui, per essere scientifica, di una teoria si deve poter dimostrare che è falsa, e che ogni prova addotta per dimostrarne la validità non le conferirà mai i crismi della verità) alla base delle scienze, se non affermare che bisogna stimare maggiormente il proprio intelletto rispetto ai propri sensi, e segnatamente la vista, che tra gli scienziati è il senso più utilizzato? (non per nulla, l’ispezione è il primo tempo dell’esame obiettivo medico)
Questa seconda “soluzione” è più rassicurante, di comodo, e spinge all’inazione, piuttosto che all’ulteriore (per quanto inutile) ricerca. D’altronde, è anche più fisiologica. L’anatomia ci dice che non tutte le porzioni della nostra retina (la parte dell’occhio in cui sono allocate le cellule che permettono la percezione dello stimolo luminoso) sono uguali: la retina di ciascun occhio, di fatti, presenta una zona, leggermente discosta dal centro, che è ricca di coni, le cellule che ci permettono una visione che, in quanto a nitidezza, è la seconda in tutto il mondo animale. La fisiologia, a sua volta, ha dimostrato che per avere una visione perfettamente distinta dell’oggetto che stiamo mettendo a fuoco, grazie alle altre strutture dell’occhio (cornea, umor vitreo e soprattutto cristallino) bisogna che la sua immagine cada, in tutt’e due gli occhi, perfettamente su questa struttura, che si chiama fovea. E non solo: sui punti corrispondenti della fovea dei due occhi (volendo semplificare, si dicono punti corrispondenti due punti che hanno le stesse “coordinate” rispetto alla mappa della retina).
Che succede se ciò non accade (come, ad esempio, negli strabici)? Si ha il curioso fenomeno della soppressione: il cervello, posto in una condizione di incoerenza ed inganno ancora maggiore di quella a cui sono sottoposti, come detto*, tutti gli uomini, compie una semplice operazione, sulle due informazioni contraddittorie che riceve: ne esclude una. Il malato ci rimette in termini di percezione della profondità (garantita dalla visione binoculare), ma, quanto meno, non si trova in una condizione di paralisi, causata dal non essere sicuro di cos’abbia di fronte agli occhi. Ugualmente, questi pensatori: che, per non sottoporre la propria mente al faticoso esercizio della critica, come consigliato da Erodoto, e dipanare un intricato ma affascinante insieme di inganni e verità, preferiscono bearsi nella certezza che nulla esista, gettando via così il bambino con l’acqua sporca (si pensi solo a Popper, che avversò con uguale virulenza la psicanalisi e la teoria dell’evoluzione); e per di più, ignorando che quella che loro scambiano per profondità di pensiero è, invece, il risultato di una perdita della capacità di intendere la profondità.
Anche quello che chiamerò, non senza una buona dose di ingratitudine, il “modo di Baudelaire”, ha un suo corrispettivo nella scienza medica. Qui, tuttavia, siamo nel campo della patologia, e precisamente di una patologia neurologica (Piccolo appunto: in fin dei conti, anche l’oculistica dovrebbe essere considerata una branca della neurologia: la retina di cui abbiamo parlato, infatti, non è una struttura a se stante, ma un “semplice” prolungamento dell’encefalo, a cui è direttamente collegata dal nervo ottico): la sindrome di Korsakoff. La causa di questa patologia è da ritrovarsi nella distruzione di varie strutture cerebrali, che sono tutte coinvolte nella memoria a breve termine, di solito in pazienti con una storia di consumo alcolico di lunga durata (due casi di questa patologia sono raccontati in quel capolavoro che è “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”, di Oliver Sacks).
Il mondo dei pazienti che ne sono affetti termina, di solito, ad una certa data della loro vita (non necessariamente quella in cui è insorto il danno), oltre la quale non sono in grado di ricordare più nulla; per supplire a questa mancanza, essi possono fare due cose: una è continuare a rivivere eternamente le stesse giornate, convincendosi di avere ancora vent’anni e di stare per partire per il fronte, in Europa, anche quando di anni se ne hanno più di quaranta ed il fronte è ormai altrove (primo caso raccontato da Sacks); l’altra, che è quella che più ci interessa e che va sotto il nome di confabulazione, è inventare eventi mirabolanti che suppliscano alla mancanza dei ricordi. Tutti quegli uomini che aderiscono al “modo di Baudelaire” confabulano: vedono il fulmine che illumina la notte, e non sanno se hanno visto la cosa giusta, oppure no, ed allora lo saturano di significati. Devono immaginare che dietro quel fulmine si celi la mano di un dio irato, che lo scaglia sulla Terra per dare ad intendere qualcosa che solo i sacerdoti (i maghi o gli sciamani o i cartomanti della tv) possono intendere. Nel “modo di Baudelaire”, risposta apparentemente innocua agli scherzi dei nostri occhi, si cela il nocciolo di tante religioni, e soprattutto delle più mistiche, che poi sono anche le più sanguinarie: non per niente, la setta degli assassini usava il potere dell’hashish (da cui il nome) e dell’illusione per convincere i suoi uomini a combattere fino all’ultimo respiro gli infedeli, che altro non sono che uomini che hanno obbedito ad una diversa suggestione della fantasia (che, come si sa, ha possibilità praticamente infinite).
Apparentemente, la nascita della scienza moderna pareva avverare l’utopia di Erodoto, visto che la scienza si basa, anzitutto, sulla critica. Ciò non è stato, ed anzi le dottrine più mistiche e violentemente antisensiste sono nate proprio nei periodi in cui la scienza sembrava trionfante: Verlaine, Baudelaire, i poeti maledetti ed i simbolisti sono nati nell’Ottocento, in reazione a quella scienza arida e megalomane (che di scienza aveva ben poco, in effetti), che era propria del positivismo; nello stesso periodo, ha assunto i caratteri moderni ed ha avuto un clamoroso successo quella “dottrina” che, curiosamente, va sotto il nome di sensitivismo.
Gli stessi scienziati, tra l’altro, sono sempre stati affascinati da tutto ciò che andava oltre ciò che riuscivano a vedere: e ciò è tanto più vero, se si considera proprio il periodo della “scienza trionfante”. Francis Bacon non esitò a fornire gli abitanti della sua isola perfetta di una Bibbia; Newton considerava la fisica, a cui pure deve la fama, come la più gretta delle materie, considerandola, al più un gradino su cui appoggiarsi per costruire la vera scienza: l’alchimia. Se ci addentriamo nel campo della matematica, poi, i “mistici” si sprecano: così, andando a memoria, posso citare Wittgenstein, Godel, Erdos, e soprattutto Cantor. Che ricordo per due motivi: primo, perché, dopo aver dimostrato che ci sono tanti punti nel lato di un quadrato quanti ce ne sono nel suo perimetro, commentò piccato “Lo vedo, ma non ci credo”; e secondo, perché finì la sua vita in manicomio, tentando di dimostrare l’esistenza di Dio.
Gli uomini, dunque, paiono ancora incapaci di mettere in pratica il saggio e precoce consiglio di Erodoto, come spero questa rapida carrellata abbia dimostrato; quel che è peggio, però, è che paiono incapaci anche di applicare quello di Wilde: “Esistono romanzi scritti bene, e romanzi scritti male. E questo è tutto”. Il che potrebbe essere tradotto, un poco liberamente ma senza dubbio senza forzare il pensiero del grande irlandese, con un semplice: “Accontentatevi di godervi le cose che vedete belle”. Oh, accidenti, quando ho iniziato a scrivere non pensavo ci sarebbe voluto così tanto, ad arrivare a questa frase.
Un mese fa, ho scattato questa foto:
È stato allora, che ho cominciato a pensare a tutto quanto ho scritto finora. Ed a quanto è triste chi non è capace di vedere secondo la maniera di Erodoto e Wilde. Perché io, qui, resto basito di fronte alla bellezza di un tramonto. Altri, non ci vedono altro che scie chimiche.
* in tutte le occorrenze dove compare un asterisco, avevo inizialmente usato un’espressione che, in qualche modo, richiamava la vista o gli occhi (punto di vista, vedendola così, eccetera) e che ho poi modificato.
Il post è un bel post. Ma tu figliolo devi imparare a essere “circonciso”, come dicono gli amici (di chi?) grillini. E comunque, il banner l’ho fatto io, e se l’occhio sta in alto, è perché il naso sta in mezzo e la bocca sotto. Mica l’ho progettata io la faccia umana. Però mi fa piacere quando qualcuno mi analizza. Perdendo tempo 🙂
"Mi piace""Mi piace"
Ma io di solito sono per la forma breve, ero partito per fare un breve cappello introduttivo a quella che è diventata la conclusione… poi la cosa mi ha preso la mano, più scrivevo più mi venivano in mente esempi.
"Mi piace""Mi piace"
Vabbè ma mica ti devi giustificare. A me mica da fastidio, ma il lettore medio dopo la seconda sillaba inizia a pensare al culo di quella che ha visto sulla metro. Era un consiglio mica un’accusa.
"Mi piace""Mi piace"
Non mi stavo giustificando, era una semplice spiegazione.
"Mi piace""Mi piace"
Mi duole dirlo ma Albini ha ragione. La lettura era partita bene, ma più andavo avanti e più era una sfida a vedere chi si sarebbe stancato prima. Hai vinto tu!
"Mi piace""Mi piace"
Peccato! 🙂 Il prossimo sarà brevissimo, prometto 🙂
"Mi piace""Mi piace"
C’è sempre la mezza misura 🙂
"Mi piace""Mi piace"
L’ha ribloggato su Suprasaturalanxe ha commentato:
Post pubblicato su “I discutibili”, per il loro “tema non bisettimanale”, i cinque (sei/quattro/quantiritenetechesiano) sensi. Sì, lo so che è lungo. Buona lettura lo stesso.
"Mi piace""Mi piace"
Pingback: Lettera a Maurits | Suprasaturalanx
Pingback: Questione meridionale | i discutibili
Pingback: Fruibilità | Suprasaturalanx
Pingback: A Roma andai, a voi ripensai – Quarta parte | Suprasaturalanx