Umano, troppo umano, disumano
Non posso (kann) non pensare ancora alla tragedia di Lampedusa.
Non posso (darf) smettere di pensarvi.
Così, il parallelo assurdo che nella mia mente si viene a creare con la morte del generale Giap mi spinge ad un riflessione. Una riflessione che in realtà ho già tracciato nelle sue grandi linee nel mio primo post su quella tragedia, una riflessione che mi rimbomba in testa già da diverso tempo ma che è sempre difficile esporre con coerenza.
Ci riprovo ora.
La domanda fondamentale è perché certi eventi tragici ci colpiscono tanto ed altri ci lasciano quasi indifferenti?
Potremmo trovare tante risposte, più o meno fondate su una psicologia del lutto o chissà cosa; ma personalmente credo che una buona sintesi risieda in quei versi di Guccini, che cantava “storie tragiche nate per gioco, troppo vicine o troppo distanti“. Ecco: troppo vicine o troppo distanti. La nostra capacità di affrontare gli eventi tragici è sempre compromessa dal grado di vicinanza agli stessi. Per esser banali, durante il genocidio in Ruanda nessuno laggiù si sarebbe messo ad analizzarne i retroscena storici, sociologici, psicologici, politici e geopolitici. Come, invece, facevamo (male) più o meno tutti qui, lontani dalla tempesta.
Così, credo, esistono due livelli di rapporto all’evento tragico: quello emotivo e quello intellettuale. In entrambi i casi, la distanza è tutto nel giudicarli. Come non si può essere troppo intellettuali “al centro della tempesta”, così non si può essere emotivi nella sua periferia. La troppa distanza inibisce l’emozione, la troppa poca inibisce la riflessione. In ogni caso è un guaio, perché l’uomo è tanto animale razionale, quanto emotivo.
Questo potrà anche essere un buon riassunto della questione, comodo per qualche dotta disquisizione. Ma non risolve niente.
Non risolve niente, perché il problema vero si apre ora: nel nostro comune senso di umanità risiede, per quanto ben nascosta, quell’idea di comunanza con tutti (o quasi tutti; o una parte) degli esseri umani nel pianeta. Insomma, come accennavo sopra, dovremmo rimare tanto emotivamente quanto razionalmente coinvolti. Così, quando guardiamo la famosa e terribile foto di Kevin Carter con l’avvoltoio che mira un bambino denutrito nel Sudan del 1993, oltre a ragionare sulle cause e conseguenze, abbiamo (o dovremmo avere) una reazione emotiva, di sdegno, sconcerto, vergogna, pietas e Mitleid (com-passione). A volte, per fortuna, l’abbiamo; ma a volte no. E cosa serve allora perché questi sentimenti che dovrebbero essere innati, questi sintomi primordiali di umanità si scatenino in noi?
Una bravissima blogger che ci ha omaggiato con un suo contributo scriveva: “Ma Zaher aveva gli animaletti e la poesia, ché senza quelli andava dritto all’obitorio come tanti prima e dopo di lui, perché a noi dell’anonimato non interessa, noi per uscire dall’anestesia abbiamo bisogno delle storie“.
Già, storie: abbiamo bisogno di “entrare in contatto” con l’altro, con quello che vediamo soffrire, che altrimenti ci pare solo un’altra figura sullo scenario nel quale ci muoviamo ogni giorno.
Ricordo sempre una grande lezione che ci lasciò un prof ad Hamburg, diceva: “Cosa potete fare se siete in metropolitana ed un gruppo di nazi sale a bordo e minaccia un extracomunitario?” Noi restammo in silenzio, il pensiero comune era “nulla“: chi vuole mettersi contro un gruppo di nazi? Ebbene, rispose da solo: “Sedete accanto a lui e parlategli“, messaggio sottointeso: se vuoi, adesso devi fare conto di fare due vittime. Sembra uno scherzo, ma alcuni anni dopo, stavolta a Lyon, affrontavamo il testo “Uomini comuni” di Christopher Browning: la storia di come dei bravi lavoratori per nulla nazisti si siano trasformati in perfetti genocidiari. Browning chiudeva con alcune considerazioni su perché in alcuni casi il perfetto meccanismo di trasformazione non funzionò, ovvero sul perché si formò una qualche sorta di resistenza più psicologica che politica allo sterminio: l’episodio forse più interessante è quello di un soldato che, mentre mitragliava le sue vittime, per sbaglio parla alla donna che gli sta di fronte e scopre che anche lei è di Amburgo. Da quel momento, subisce una sorta di “blocco”.
Tante storie simili le racconta anche Jacques Semelin e tanti esperimenti (Milgram e Zimbardo) ne confermano la fondatezza: sapete che Milgram condusse diversi variazioni del celebre esperimento con le scosse elettriche, ebbene in uno di essi la vittima era direttamente visibile, in uno non si sentivano nemmeno le urla… Conclusioni? Quando si vedeva la vittima, l’obbedienza crollava, quando neppure la si sentiva, raggiungeva livelli altissimi.
Un commento, sintentico ma brillante, al mio citato post veniva da un discutibile collega che -se ricordo bene- citava Stalin: “un morto è una tragedia, un milione sono una statistica“. Niente di più vero. Per qualche ragione bio-psichica, non riusciamo a registrare un milione di storie. Così, nel gran numero, quel labile “contatto” con l’altro si perde.
Se Carter avesse fotografano una folla di bambini denutriti, la cosa sarebbe passato come una “statistica” e probabilmente non ci avrebbe colpito più di tanto. Ci saremmo fermati all’aspetto razionale della questione.
Quello che allora non comprendo è come possono tante persone sentirsi coinvolte dalla morte di qualcuno che non conoscevano, con cui non erano in contatto, uno Steve Jobs, direi. Posso capire che nel grande pubblico qualcuno si senta vicino a Jobs come io mi son sentito a Giap… ma milioni? No, questo non lo capisco. E le loro commemorazioni mi sembrano allora solo retorica d’occasione. Ed è per questa stessa ragione che mi fa incazzare l’idea del “Nobel per la Pace” a Lampedusa: chi nell’isola lo meriterebbe? Secondo me, dobbiamo fare nomi e cognomi dei soccorritori!, dobbiamo dar loro un volto ed una storia. Altrimenti, si perdono nella statistica. E questa è un’offesa.
Così, i morti di Lampedusa si perdono nella statistica: nessuno può o vuole andare ad indagare le loro storie aldilà dei pochi fatti traversata-affondamento-annegamento. E’ duro, doloroso. E questa è l’offesa peggiore, perdio stiamo parlando di uomini!
Non possiamo lasciare delle morti nel limbo della statistica (che poi è quel limbo che Todorov traccia tra “storia” e “memoria”). Ma dove si traccia il confine della storia, del contatto con un’altra persona, della sua umanità?
Allora? Allora provo a venire al punto. Il punto nodale, mi pare, è che il dolore, la partecipazione emotiva ad un evento, si declina sempre al singolare. La sofferenza, la dignità dell’uomo, sta nel singolare, nei dettagli (così la responsabilità). Forse dobbiamo cominciare a staccarsi dalla retorica dell’epoca di massa, visto che comunque viviamo in una società individualista, con una mentalità individualista: anche in URSS per celebrare un eroe hanno preso uno Stakanov od un Gagarin, mai il generico “gloriosi operai produttivi”, “gloriosi astronauti”.
Ma se tutto ciò è corretto, perché noi possiamo recuperare quello spirito di
umanità, occorre fare uno sforzo in più. Poiché, a quanto pare, la nostra capacità d’immedesimazione nel prossimo è limitata. Allora, occorre concretizzarla in qualche modo e per far ciò, abbisognamo di un qualche elmento che ci riporti in contatto con l’altro, che ci permetta di focalizzarlo con la sua sofferenza per quello che è: una storia, una vita, un uomo. Allora occorre ascoltare le storie, dove vi sono; occorre contestualizzare i fatti; occorre scavare oltre l’evento e ricostruire; occorre non dire che a Lampedusa sono morte 200 persona, ma fare i loro nomi. E’ un caso forse che il Vietnam Memorial a Washington DC abbia tanto impatto emotivo?
Certo, non è facile. Ma se è questo che cerchiamo, io vorrei che ciascuno di noi si prendesse una biografia di quei migranti morti a Lampedusa, la ricercasse, se la leggesse, vi entrasse nei dettagli.
L’umanità non è in un elenco, in una statistica: le statistiche sono fatte per i contabili, per il controllo sociale distaccato, per l’amministrazione meccanicamente efficiente.
A me, veder le foto di famiglia dei cadaveri sui giornali fa incazzare, mi sembra di ucciderli di nuovo, come se, senza quelle foto noi proseguiremmo dritti. Come quando uno muore e lo santificano mentre in vita era un povero coglione, almeno il diritto di lasciarlo morire da coglione, quello glielo dobbiamo senza tante cerimonie che mettono a posto le nostre coscienze ma non spostano di un filo lo stato delle cose. Quanto siamo limitati ad aver bisogno di una storia per diventare umani, ad aver bisogno di guardare negli occhi qualcuno per sentirlo vicino. Non ci basta saperlo, non basta lo scempio, abbiamo bisogno dell’isteria di un’emozione per ricordarci il delirio che stiamo facendo. Lasciamoli morire in pace questi corpi senza nome, nel silenzio in cui sono partiti, mi vien da dire così, non meritiamo di star dentro alle loro vite. Chiediamo le loro foto e le loro storie quando ci avvicinano alla stazione mendicando, sono loro, sono gli stessi, solo che nella fretta di andare al lavoro non c’è tempo. Un silenzioso rispetto, un po’ di pudore, un pensiero raccolto. Io credo sia la cosa migliore che possiamo fare, e un progetto per il futuro, perché così non sia mai più. E scusarci, scusarci tanto.
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Ecco, chiedere le storie di quelli che incontriamo per strada od alla stazione sarebbe probabilmente la cosa migliore. E rimboccarci le maniche.
Ma mi accontanterei anche della soluzione molto più modesta (e possiamo pure dircelo: anche vagamente ipocrita) di conoscere quelli che son morti laggiù.
Che non vuol dire, bada bene, guardare con oscena voracità del macabro le loro foto sui giornali, ma scavare ben oltre quel velo che ci frappone la spettacolarizzazione dell’evento.
Ma la cosa più interessante la scrivi quando dici “quanto siamo limitati”: sì, lo siamo. Guarda, è forse il tema della psiche più interessante che possa immaginare: quanto limitati siamo nel riconoscere l’umanità degli altri. Così limitati da doverci aggrappare a questi mezzucci.
Ma ne abbiamo altri? Io ne ne vedo.
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red, a parte che su certi post è difficile dire bello o brutto ma, sempre per citare guccini, bisognerebbe semplicemente dire “mannaggia, perché non l’ho scritto io?”, a parte questo ed il fatto che sottoscrivo ogni singola parola, ecco, permettimi di aggiungere solo un piccolo link. anzi, un copia incolla: dell’editoriale di internazionale di questa settimana.
“Dal 1988 sono morte lungo le frontiere europee almeno 18.673 persone. Il dato è aggiornato al 10 novembre 2012, ma il numero reale potrebbe essere molto diverso, perché nessuno sa quanti siano davvero i migranti annegati in naufragi di cui non abbiamo mai avuto notizia. Anche quando sono ripescati dai sommozzatori dei vigili del fuoco oppure spinti dalla corrente fino a riva, raramente si vengono a sapere i loro nomi. Sono corpi allineati su una spiaggia e coperti da un telo bianco, come quelli dei tredici migranti annegati lunedì 30 settembre mentre cercavano di raggiungere la spiaggia di Sampieri, nel comune di Scicli, in provincia di Ragusa. Al polso un braccialetto di plastica bianco con un numero scritto a pennarello.
Ma tre di loro avevano un documento infilato nella tasca dei pantaloni. E oltre alla data e al luogo della loro morte, hanno avuto diritto almeno a un nome, a un cognome, a un luogo di nascita.
Gebremic Hael Belay Tesfagergish, 27 anni, nato ad Adi Bahro, in Eritrea.
Tekeste Weldetinsaie Berhe, 43 anni, nato ad Asmara, in Eritrea.
Tekhlehaimanot Shishay Ogbay, 30 anni, nato a Maimine, in Eritrea.”
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Ti rispondo, provocatoriamente, che invece in post simili è facilissimo rispondere: sono brutti. E diciamocelo tranquillamente, perché raccontare bene una sporca storia non la rende una bella storia.
Comunque, la battuta di Guccini mi ricorda qualcosa (ma non ne parlo qui).
Trovo l’articolo di Internazionale un passo nella giusta direzione, anche se a mio avviso dovremmo fare di più: le notizie dei giornali restano inevitabilmente notizie generali, generiche ed in qualche modo astratte. Per cambiare questo, dovrebbe essere ciascuno di noi a cercare un suo dettaglio “trigger”.
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Le storie che stanno dietro a questi migranti sono da far rizzare i capelli in testa ad un calvo.
Un mio collega è arrivato in Italia attraverso la galleria del Frejùs, a piedi e, ovviamente, di notte (non che in galleria faccia molta differenza, chiaro).
Ogni volta che sentivano un treno o vedevano le luci era una corsa fino al prossimo riparo nei muri.
Storie di vent’anni fa, ma restano terribili.
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Ecco, direi che centri esattamente il punto: entrare nei dettagli di una storia, negli aneddoti se vogliamo, ce la rendono reale; ci permettono di trasporla in termini che per noi hanno un senso, una dimensione, un impatto specifico (la galleria del Frejus, ad esempio, ha una dimensione fisica molto chiara, comprensibile a chiunque l’abbia attraversata almeno una volta!).
Secondo me, questo è il primo e più elementare passo che possiamo e dobbiamo fare per metterci “in their shoes” e comprendere veramente cosa voglio dire quelle esperienze che troviamo riportate nella cronaca come fatti totalmente neutrali.
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Esattamente.
Poi, non so, forse chi, come me, ha provato su di sé per ben due volte cosa voglia dire emigrare (per quanto in modo meno traumatico di chi rischia la vita per venire in Italia), la curiosità diventa un bisogno di confronto.
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il pensiero comune era “nulla“ ???????? O__o quante discussioni tristemente vergognose ho dovuto affrontare .. quante serate nere ho vissuto .. ca**o che nervoso, quanti indossano simboli, felpe e ferro pensando di esser qualcuno e di salvare il mondo !!? da cosa poi?? se la gente ha paura molto spesso soprattutto di loro .. ca**o che nervoso .. mi sembra di essere li adesso, a strappare quella maglia, che ci piaceva tanto, di un amico che difendeva il suo paese e sono contenta adesso di quello strappo perché altrimenti avrei pianto di dolore e non di rabbia …
Mi piace il tuo post ..
mi è venuta in mente una canzone mentre leggevo:
mi piacerebbe che ascoltassi tutto il testo se per te è nuova 😉
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*adesso che ho finito di leggere mi vengono in mente anche questi due film che ho visto qualche anno fa:
http://it.wikipedia.org/wiki/The_Experiment_-_Cercasi_cavie_umane
http://it.wikipedia.org/wiki/The_Experiment_(film_2010)
* per tutto il resto sono d’accordo con te, Il nobel a Lampedusa trovo che sia qualcosa di insensato .. non mi dilungo hai già detto tutto tu 😉
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Non conoscevo la canzone di Gaber, adesso me la ascolto con calma.
Ti ringrazio anche per la segnalazione del film (curioso come il cinema tedesco di inizio anni 2000 si sia tanto focalizzato su questi temi di esperimenti sociali, un altro che mi viene in mente è “l’onda”: http://it.wikipedia.org/wiki/L%27onda_%28film_2008%29 che consiglio vivamente).
Se ti interessa, Zimbardo ha scritto anche un libro “l’esperimento lucifero” su quell’esperimento ed altri casi simili.
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grazie mille per i consigli, mi interessano molto questi argomenti 🙂
(scambiamoci i pareri su quello che vediamo e sentiamo 😉 )
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Condivido pienamente. Sul perché milioni di persone si emozionino per la morte di Jobs o Diana, è perché probabilmente scattano meccanismi di identificazione e proiezione. Vedi nell’altro qualcosa di te, o che comunque ha a che fare con te, con tuoi desideri o aspettative… Il che rientra nel caso dell’emotivamente molto vicino…
Complimenti per il post.
Ciao,
Chiara
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Sì, credo anche io che scattino meccanismi simili. Ma non riesco a spiegarmeli in numeri così di massa: posso comprendere qualche identificazione, ma che quasi una generazione intera si identifichi con Jobs mi pare un pò problematico…
Probabilmente, è un effetto proprio di quel flusso continuo di informazioni su tali personaggi che ci viene offerto.
Ma se riusciamo a vedere qualcosa di noi in Jobs (che pure, almeno per me, ne ha pochino): come si spiega che i) non vediamo niente di noi in un migrante? o ii) che in noi non vediamo niente di un migrante? La narrazione diventa maledettamente importante.
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Hai ragione. La narrazione è fondamentale, altrimenti il migrante rimane un volto anonimo, di cui aver pena, ma che rimane lì. Ci identifichiamo in storie, in aspetti concreti. Molto più difficile identificarsi in un volto di sofferenza. Accade magari quando si è sofferenti, molto, e consapevoli della propria sofferenza. La storia di Eluana, o di Welby, ci ha animati e ha mosso infinite discussioni. Ma erano appunto storie, non solo fotografie. Così come “conosciamo” la storia di Steve Jobs, o del cantante di turno. Il meccanismo di identificazione è lo stesso, i numeri cambiano per la diffusione mediatica, penso.
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Probabilmente sì, ma forse c’è anche un altro aspetto più “ideologico” se vogliamo chiamarlo così.
Provo a spiegarmi: Jobs o Diana sono simboli “di successo” all’interno di un peculiare contesto di valori come la nostra società occidentale (in Tanzania, ad esempio, Jobs non era affatto un mito); al contrario, i migranti sono figure problematiche, magari al limite della legalità che -specie nel nostro dato contesto valoriale- rimandano a storie di “fallimenti” non gradevoli da ascoltare.
Quindi, l’associazione con Jobs o Diana ci è molto più facile.
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Apri un tema molto interessante. Le storie di fallimento non sono gradevoli da ascoltare, probabilmente per nessuno. Immagino ci sia anche un senso evoluzionistico in questo. Dare senso e valore anche ai fallimenti è un tema poco praticato, ma sarebbe vitale per tutti noi. E qui le differenze culturali si fanno sentire: la nostra cultura non è certo orientata a comprendere gli insuccessi!
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http://talkingaboutmyidiots.wordpress.com/ (non è spam ma un premiuccio)
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