considerazioni sull’attaco a Nairobi
Ok, provo un’azzardatissima seconda puntata sui fatti di Nairobi.
Come anticipato nel primo post, gli aspetti da analizzare sarebbero tantissimi e non ho certo la competenza per sviscerarli appieno. Ma basti tracciare alcuni elementi di riflessione.
1) La fragilità dello Stato kenyota
Il Kenya è stato per diverso tempo uno degli Stati africani con le migliori prospettive di crescita economico-sociale: specialmente in confronto con la vicina Tanzania ed il modello di socialismo africano ivi adottato da Julius Nyerere, il Kenya “capitalista” e filo-occidentale di Jomo Kenyatta e Daniel Arap Moi ha avuto prestazioni macro economiche assai più incoraggianti (il che non vuol certo dire che si fosse sradicata la povertà estrema, ancora presente). Non è forse un caso che Malindi sia diventata una meta turistica tanto apprezzata e Tanga (pochi km più a sud) no. Infatti, sin dai primi anni d’indipendenza, il Kenya ha avuto maggiori investimenti in infrastrutture e maggiore supporto politico dall’Occidente: rappresentava un’enclave strategico non secondario nello scenario africano.
Da alcuni anni, tuttavia, soffre di una significativa debolezza. In particolare, le elezioni del 2007 hanno visto sanguinosi scontri etnico-politici fra i sostenitori del Kenyan African National Union (KANU – il partito di Jomo Kenyatta ed Arap Moi che ha sostanzialmente dominato la politica nazionale dall’indipendenza) del presidente Kibaki e quelli dell’ODM di Raila Odinga, d’etnia Luo. Gli scontri furono tanto violenti da essere attualmente oggetto di due distinti processi dinnanzi alla Corte Penale Internazionale: processi che coinvolgono sia l’attuale presidente Uhuru Kenyatta (figlio di Jomo) ed il vicepresidente William Ruto. E’ del tutto evidente come, specie in una repubblica presidenziale, avere il capo di Stato e di governo ed il suo vice entrambi imputati dinnanzi ad un’istituzione penale internazionale come la CPI (e, quindi, costretti a lunghi periodi all’estero per le udienze) sia un elemento di debolezza non secondario per uno Stato.
In realtà questa complessa vicenda elettorale riflette anche un’altra debolezza, una spaccatura strisciante nella politica kenyota: nostante il formale dominio del KANU, è bene ricordare che nel 2007 Ruto sostenne Odinga e la larghissima vittoria di Kenyatta alle ultime elezioni del 2013 è dipesa anche dalla capacità dei due di unirsi in un’unica candidatura.
Come non di rado accade, nei partiti che dominano la scena politica post-coloniale dietro una facciata di unità sotto la bandiera del nazionalismo e dello sviluppo si nascondo idee spesso molto differenti (una storia simile l’ha vissuta anche il Partito del Congresso in India).
Intanto, vi segnalo queste dichiarazioni di Ruto su un ipotetico legame fra il proprio processo avanti la Corte Penale Internazionale e l’attacco al Westgate Mall.
2) Somalia, pirati e frontiere
Per alcuni analisti, il gruppo terroristico somalo al-Shabab (che ha controllato di fatto lo Stato somalo negli ultimi decenni) ha deciso di colpire il Kenya come rappresaglia per il suo intervento con le forze dell’Unione Africana nel 2011 in Somalia. Intervento che sta erodendo il potere degli al-Shabab.
Nella lunga e complessa storia della guerra civile in Somalia, dopo svariati interventi da parte dell’Etiopia ed USA, nel 2011 si è giunti alla formazione di una forza internazionale a sostegno del governo di transizione: i componenti principali di tale forza provengono dagli Stati africani ed in primis Etiopia e Kenya. Data la loro collocazione geografica e le migliaia di kilometri di confine fra i tre Stati, è evidente come Kenya ed Etiopia abbiamo tutto l’interesse (se non la necessità) a cercare di pacificare la regione.
Gli al-Shabab che avevano gioco abbastanza facile a dominare le mille fazioni in lotta e contrastare il debole esercito somalo, ovviamente ora accusano il colpo (come già in passato con l’Etiopia peraltro). Colpo che potrebbe essergli fatale, se spinto abbastanza a fondo ed abbastanza a lungo.
A questo problema si aggiunge quello -parallelo- della lotta alla pirateria: è risaputo come il failed State somalo sia divenuto la base d’appoggio ideale per molti dei pirati che operano nel golfo, con danni enormi per l’occidente ma anche per il Kenya. Kenya che, fra l’altro, è indicato fra le possibili sedi per i processi ai pirati catturati.
Infine, non si può dimenticare un dato abbastanza intuitivo, ma chiarissimo a chiunque abbia mai pesso piede in terra d’Africa: i confini, non esistono. Salvo rarissimi casi, definire “colabrodo” un confine in Africa è un eufemismo: con migliaia di kilometri da controllare, generalmente senza punti chiaramente demarcati né assistiti da formazioni naturali particolarmente difendibili, diviene assai difficile per Stati relativamente deboli come quelli africani evitare infiltrazioni dall’esterno e controllare il loro vastissimo territorio disabitato (fatto da tenere sempre a mente: gli spazi africani sono per lo più vuoti d’uomini e -soprattutto- di Stato). Ebbene, il Kenya condivide con l’instabile Somalia quasi 700 km di frontiera: frontiera dalla quale passa qualunque cosa (droga, armi, uomini e violenza). Non può quindi sorprendere che i terroristi di al-Shabab siano arrivati a Nairobi senza eccessive complicazioni.
Nel precedente post menzionavo le parole del responsabile della sicurezza all’ICTR: “sappiamo che arriveranno“. Sia le Nazioni Unite che i vari foreign offices (nel 2012 le ambasciate britanniche in Kenya scoraggiavano i turisti dal recarsi nelle città costiere, coscienti -appunto- del pericolo rappresentato dalla pirateria) dei paesi occidentali erano abbastanza coscienti del pericolo più o meno imminente: le frontiere sono colabrodo e da Nairobi ad Arusha il passo è breve…
3) Islam
Quest’ultima riflessione sarà poco più che uno spunto, non avendo conoscenze specifiche in materia tali da consentire altro. Tuttavia ritengo utile inserire nel ragionamento anche l’argomento religioso: come quasi tutti gli Stati dell’Est Africa, il Kenya è a nettissima maggioranza cristiano (ovviamente, nella forma spuria ed ibrida che questa fede assume in Africa, specie nelle zone rurali). Ma vi è anche una significativa minoranza mussulmana, collocata per lo più lungo la costa dell’Oceano Indiano, oltre alla diffusa minoranza somala. Quel che preme considerare è dunque l’esposizione del Kenya (e della Tanzania) al potenziale influsso islamista e conseguenti scontri religiosi: non so quantificare in che misura il rischio sia reale, ma certo la vicinanza geografica con la Somalia è tale da non escludere progetti di espansione di Al Quaeda nell’area. Sia dal punto di vista simbolico (colpire luoghi come Malindi o Zanzibar), sia da quello economico (bloccare l’accesso ai maggiori porti orientali dell’Africa sub-sahariana) che geopolitico (compromettere la stabilità degli Stati della regione) potrebbe essere una mossa dirompente, destinata a segnare anche l’Occidente distratto.
Non voglio, ovviamente, invitare l’Occidente ad un “intervento” di qualsiasi genere nell’area (intervento per il quale non vi sono affatto i presupposti), quanto ad una seria riflessione.
Se Nairobi è divenuta una megalopoli mondiale, una delle più grandi d’Africa, ed un centro commerciale e finanziario tanto importante, ciò è dipeso da una molteplicità di fattori: non da ultimi gli interessi occidentali (ed oggi di Cina ed India). Se questo fragile equilibrio dovesse rompersi, le conseguenze potrebbero riverbersarsi su tutta la regione dell’Africa Orientale ed oltre…
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