e lo chiamano lutto nazionale
Non sapevo, non avevo capito. Non so, non ho capito.
Cosa c’è da capire? Cosa? Quanti?
155 tratti in salvo, 111 corpi. Il resto? Non si sa.
Ecco la contabilità. Di che? Del canale, di “negri”, della legge Bossi-Fini, d’Africa, di migranti, di uomini. Sepolti galleggianti. Sepolti in mare, dal mare; come si faceva una volta con i marinai morti in alto mare. Ma niente salve di cannone, niente squilli tristi di tromba, niente pellegrinaggi ai cimiteri d’eroi.
Ma tanta, tanta, retorica. La retorica di quelli che “mancano i fondi“, “servono politiche comunitarie“, “via la legge Bossi-Fini“, “il Nobel per la pace a Lampedusa” (ma se il Nobel per la pace lo merita qualcuno, semmai sono i superstiti e loro). E tu li ascolti e pensi pure che, sì, hanno pure ragione.
Diavolo d’un mondo!, hanno ragione: hanno ragione a dire che gli uomini non possono continuare a morire così, come animali.
Stamattina ho aperto il giornale, non ho letto nulla. Ho guardato solo le foto: i sacchi di plastica; le etichette senza nomi; le macchie nero-bianche in mare. Cosa avrebbero potuto aggiungere le parole?
Anzi, due cose le ho lette, fra i titoli: ho letto del gasolio ed ho letto di quel pescatore che si è tuffato in acqua per salvare non so quante persone, prima di scoppiare a piangere.
Credo questa storia sia il messagio più forte che ci arriva oggi: piangere.
E’ facile per me, lontano, guardare le foto e sentire la retorica riempire l’immenso vuoto che si è creato. E’ facile restare lucidi, razionali e pensare alle politiche comunitarie; alle tragedie che quelle persone cercano di lasciarsi alle spalle (Eritrei, leggo, l’ennesimo “buon” regime che il nostro Stato continua a supportare). Il difficile, qui a più di mille kilometri dalla tragedia, è mettersi a piangere. Eppure, sarebbe l’unica cosa giusta da fare.
Lutto nazionale, hanno proclamato.
Immagino sia esistito un tempo in cui, anche qui, queste parole avevano un senso. Forse nell’era di un cattolicesimo ancora vissuto, per quanto dogmatico; forse nell’immediato entusiasmo della fondazione di questa “nazione”: forse allora si aveva il sentimento di dolore diffuso che dovrebbe marcare il “lutto nazionale”. Forse allora avremmo sentito pesare sulle spalle di tutti e ciascuno la tragedia, la sofferenza che colpiva l’intera comunità.
Oggi no. Oggi non più. Oggi, nel cristianesimo post-edonista di una società consumista, rattrappita nell’individualismo senza alcuna prospettiva al di fuori di sé; oggi in uno Stato che ha perso qualsiasi senso di cittadinanza e cittadino; oggi un sentimento tanto rarefatto neppure più ci sfiora.
Paroloni, lo so. Eppure dovremmo guardare per un attimo oltre quei paroloni; scostarli per guardare cosa siamo diventati.
E’ tanto facile essere “esseri morali“, provare Mitleid, compassione ed empatia quando il dolore ci è vicino: lo facciamo ogni giorno, anche col nostro cane (avvicinarsi alle vittime, non a caso, è una delle prime lezioni per non restare indifferenti). Ma quanto è difficile quando è così distante, diffuso condiviso: ecco, l’effetto “spettatore”, bystander, più siamo, più confidiamo che ci pensi qualcun altro. Altro che “nessun uomo è un’isola“!
E questo dolore che vorrebbe esser diffuso e calarsi in ognuno di noi, diventare massa e lezione morale, resta sospeso in una nuvola.
Un dolore disperso, che non assume consistenza: in una società di individui anche il dolore, il lutto, ha solo dimensione singolare.
Cosa siamo diventati.
Una società di retorica, come la mia ora; una società che accetta l’esistenza di una legge come la Bossi-Fini; che accoglie i “vaffa” come azione politica; che si indigna per gli scudetti rubati e cos’altro?
Ricordate gli “angeli del fango“? A loro mi viene da pensare in questo momento, a loro che corserò perché sentivano che quella in atto era una tragedia comune, un dolore che li colpiva tutti. Sentivano veramente, nella viva carne, che per ogni pagina di Dante persa se ne andava qualcosa di loro.
E noi? Noi sentiamo che, come predicava John Donne, con ognuno di quei corpi galleggianti se ne va a fondo una parte di noi? Noi invischiati in una sequela di tragedie quotidiane, estemporanee ma onnipresenti, saremo in grado di correre a Lampedusa?
No, io non lo sarei. Infatti sto qui, seduto alla scrivania. Ed ecco che “quelli” lì li chiamiamo eroi. Loro sì: prendono e vanno. E più le nostre misere figure si ripiegano nella retorica, nella quotidianità insensibile al lutto condiviso; più loro si innalzano sulle nostre teste ricurve, si stagliano come giganti. Ma quanto grandi sarebbero in realtà se noi tutti rialzassimo il capo?
Ogni volta che sento queste storie, mi rimbomba in testa quella frase di Brecht: “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi“. Ogni volta che la sento pronunciare, mi sembra sempre che sia detta senza capirla, come un’invocazione ad una vita tranquilla, senza scossoni, che renda superfluo l’eroismo. Io, quando la penso, penso invece immancabilmente che sia un appello a tutti, una chiamata ad esser tutti all’altezza della vita, che allora nessuno sarebbe “eroe”.
Qualcuno era […] perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri.
Qualcuno era […] perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo.
Perché sentiva la necessità di una morale diversa.
Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Sì, qualcuno era […] perché, con accanto questo slancio, ognuno era come… più di sé stesso.
Così cantava Gaber, in una delle sue ultime canzoni. E non importa “cosa” si era. Per questo l’ho cancellato. Perché l’importante era essere.
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che dolore… 😦
per noi incapaci di essere, per loro costretti e non esistere
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questo commento merita da solo un post.
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ma della Bossi Fini ne stiamo parlando ora che ci si sono insanguinate le acque? Prima non c’era? Non più dolore, solo rabbia
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davvero vuoi una risposta?
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è che mi sale il veleno, perché tra oggi e domani tutti cristianoni.
Poi da domani in poi a rubare e ammazzare è sempre il rumeno, e “questa strada non la fare che è piena di immigrati” e i bambini nati in Italia più italiani di me sono stranieri.
Almeno non piangessero tutti come papi.
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Non ti dico il commento che ho dovuto leggere su FB (animali, altroché sociali).
E dopo mi si viene a parlare di umanità… mi domando dove sia finita l’umanità.
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“una singola morte è una tragedia, un milione di morti è una statistica”. chiunque l’abbia detto veramente, ci stiamo arrivando, compagno stalin, ci stiamo arrivando. dacci solo il tempo.
sigh.
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dolore infinito….
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bellissimo post.
però una piccola obiezione: io ieri ho pianto anche io, letteralmente, però oggi cerco di recuperare l’equilibrio e la ragione e ho appunto pensato, fra il resto, allo scarto che si è venuto a creare tra la legislazione di un’Italia razzista e fascistoide – che il governo Letta non sta rimettendo in discussione – e l’Europa.
l’Europa individua in queste politiche la cuasa dei ripetuti disastri szúlle nostre coste: credo che sia il caso di rifletterci su.
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Se ho ben capito, ma non son certo che sia nella Bossi-Fini, esiste addirittura una norma che sanziona chi presta aiuto/soccorso ai battelli con immigrati. Siamo, evidentemente, alla follia ed è essenziale rivedere questo sistema demenziale e criminale.
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mi cito o non mi cito?
mi cito dai dal mio post di oggi:
“basti pensare al delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina “alla luce delle modifiche apportate al T.U. 286/1998 dalla L. 189/2002″: come ha chiarito la Corte di Cassazione, oggi la legge punisce il solo compimento di atti che, “in qualsiasi modo, agevolino l’ingresso irregolare”.”
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Eh, mi prendo un pò in ritardo a leggere i tuoi post ultimamente… Comunque, esattamente quello che intendevo.
E senza dubbio quella legge è stata fra le più dementi degli ultimi anni.
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Mi viene in mente una cosa, riguardo agli “angeli del fango” e all’attuale mancanza di empatia, di partecipazione.
Ricordate che a giugno tra le province di Massa Carrara e Lucca c’è stato un terremoto? Per quanto se n’è parlato, qualche giorno (non ho la TV, sento solo la radio e leggo internet quando posso, quindi sono un po’ sfasata rispetto agli altri)?
Lì la terra trema ancora. C’è ancora gente che non ha casa, né un posto dove dormire dopo che è stato dichiarato il cessato allarme e i campi tenda della Protezione Civile sono stati smantellati. E i soccorsi son stati quasi interamente gestiti da volontari locali, perché le associazioni di fuori provincia sono state blandamente allertate solo dopo una settimana. Nei giardini delle case, là dove le scosse son state più forti, ci sono tende; nelle strade ci sono parcheggiate delle roulotte, per i fortunati. Ma ora comincia a fare freddo, che succederà?
Per poter avere un aiuto economico dallo Stato devono cominciare i lavori di ricostruzione entro la fine dell’anno, ma chi i soldi per farli (per poi farseli restituire) non ce li ha che deve fare?
E si potrebbe continuare a descrivere la situazione, molti sono vecchi e molti sono veramente nei guai, ma il punto non è questo; il punto è che io lo so perché lì c’è mia madre, chi di voi sapeva che le cose stessero così, o se ne curava?
Chi di noi sa o si chiede come si stia a Lampedusa, se non quando accadono queste cose?
Quanti di noi sanno quale sia la situazione per chi vive in Eritrea, Somalia, o qualsiasi altro paese di provenienza di coloro che arrivano con le barche, o via terra?
E io per prima, lo ammetto.
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La situazione mi pare non dissimile da l’Acquila e, credo, dall’Emilia.
In realtà questo problema, secondo me, ne sottende anche un più strettamente pratico: sui chi ricadono i costi economici delle emergenze (se sono volontari, è evidente che anziché farsene carico lo Stato, tocca sempre ai cittadini).
Per venire al punto del tuo commento, che condivido in pieno, credo nessuno di noi sappia veramente cosa affrontano quelle persone per decidere di lasciare il loro paese. E tutta questa retorica della “sicurezza” non fa che annebbiare una realtà che sarebbe già tragica di per sé, senza dover attendere eventi simili: quella di persone costrette ad abbandonare una terra, famiglia, radici… Credo nessuno di noi possa veramente comprendere, che è forse il problema maggiore da affrontare.
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Amen.
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Il difficile è smettere, di piangere…
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Io sono stata a Canelli a spalare il fango dopo l’alluvione anni fa, visto che parli di fango, ed eravamo in tanti. Seguo una associazione di volontariato, se siamo in tanti, in tanti Intesomale.
Io vorrei che per un attimo si SMETTESSE di denigrare l’essere umano. Di pensare che tutti stiano dietro ad un computer a mettere solo mi piace a post dementi. La gente opera, lavora in silenzio, costruisce case, realizza progetti per i poveri, i malati. E’ solo CHE LO FA IN SILENZIO e nessuno se ne accorge. Ma la gente che vive e che comprende fino in fondo il senso di questo LUTTO NAZIONALE è tanta, più di quella che tu riesci ad immaginare moltipicato per 10000000000000! Esci intesomale, fatti un giro nei centri servizi per il volontariato, consulta le Odv, gira per le parrocchie, per le pro loco. Poi torna e dimmi se davvero avrai trovato solo occhi che lacrimano o mani e braccia SILENZIOSE al lavoro.
Ciao
Chiara
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Intesomale??? Intesomale, esci fuori… sappiamo che ci sei…
No, guarda, non c’è.
Se ti va bene lo stesso, rispondo io.
Non capisco se il post ti ha urtato, indispettito o cos’altro, ma non credo cambi molto fermarsi alle etichette.
Come sempre, per ogni giudizio vi sono delle eccezioni e credo l’intelligenza risieda anche nel cogliere queste eccezioni. Personalmente non ho il piacere di conoscerti, ma non ho ragione di dubitare che tu sia una bravissima persona che è andata ad aiutare gli altri in occasione dell’alluvione.
Ma non è questo il punto, perché nel post non parlo di te e di tutte le brave persone come te, parlo degli italiani, dell’italiano medio, di quello che è divenuta la normalità, la norma (id quod plerumque accidit: ciò che accade per lo più) nel nostro paese.
E ho messo dentro anche me, perché mi fa incazzare con me stesso non aver preso il primo aereo per aiutare, foss’anche ad allineare i corpi sulla spiaggia.
E ho concluso sperando, invocando, un riscatto di tutti. Tutti quelli che ancora non l’hanno trovato.
No, scusa, ma io non la smetterò di denigrare questo essere umano, non fino a quando non me ne darà più ragione. Non fino a quando le bravissime persone come te saranno solo un’eccezione da meritare medaglie al valor civile: io vorrei un paese in cui tutti fossimo così bravi da andarci a guadagnare una medaglia, così bravi da renderla inutile.
Io non lo sono, e non lo siamo in tanti.
Non so se mi son spiegato.
Dopo qualche complimento, permettimi di concludere comunque con una critica: con tutta la stima che ti ho già espresso, trovo che tu -e gli altri che silenziosamente lavorano per riscattare questa sporca umanità- sbagli su un punto.
E questo punto è il silenzio: non dovreste lavorare il silenzio. Il silenzio è comodo per le nostre sporche e tranquille coscienze da salotti, tv e blog. Dovreste urlare, invece!, urlare che facciamo schifo e che dovremmo rimboccarci le maniche, uscire in strada e metterci a spalar fango.
Se continuerete anche voi a restare in silenzio, suoneranno solo le voci ipocrite come la mia.
E questo, scusami, proprio non lo sopporto.
Ciao, e grazie di tutto.
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Va bene se rispondi tu 🙂
Sì, mi ha urtato il tono del post, come quelli di molti che denigrano l’essere umano. Non sopporto il nomignolo dell’italiano medio, non sopporto le generalizzazioni.
Magari tu non prendi l’aereo per andare a Lampedusa, ma raccogli la carta da terra o educhi i tuoi figli. Qualsiasi cosa fai, è un atto che comporta una reazione. A me questa storia dell’italiano medio che si gratta il sedere davanti alla tv con birra e telecomando sa tanto di commedia dell’arte e non di realtà.
E poi ti parlo del silenzio.
Hai mai provato a lavorare, a fare e nel frattempo ad urlare? Non puoi perdere tempo, stai lavorando.
Chi fa, tace, semplicemente perché non ha tempo da sprecare a smuovere le menti.
Ho un animo sensibile, lo so, paio anche ingenua, ma credimi se ti dico che l’onda silenziosa è grande.
Ciao e grazie per la tua risposta.
Chiara 🙂
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Sulle generalizzazioni risponderò meglio in futuro. Per ora, mi limito ad accennare che, pur essendo sostanzialmente d’accordo con te su questo punto, un ragionamento complessivo deve ad un certo punto arrivare ad uno sguardo più ampio, generale.
Sarà anche “commedia dell’arte”, ma l’immagine dell’italiano (e non solo italiano) menefreghista è a mio giudizio profondamente diffusa e radicata.
Certo, come detto ci sono nobilissime eccezioni. Ma sono, appunto, eccezioni.
Dovessimo giudicare persona per persona, ciascuno singolarmente come in una sorta di processo o “giudizio universale”, non farei simili ragionamenti: andrei a vedere cosa ciascuno di noi ha fatto o non fatto.
Ma io ho voluto fare un ragionamento prettamente e fortemente politico, un ragionamento che guarda alla generalità delle persone, alla norma, a quel che accade “per lo più”.
Perché è questo che mi fa incazzare, è questo che vorrei rabaltare: vorrei che quelli che se ne stanno a casa con birra e televisione fossero l’eccezione.
Allora, ti prego, in certi casi cominciamo a generalizzare!
Perché questo paese non si salverà con le “anime belle” in un deserto di ipocriti schifosi.
Sul silenzio: sì, l’ho provato. Da ultimo, giocando coi bambini ad Arusha. A parte l’esempio tutto peculiare, ovviamente capisco il tuo ragionamento e sono anche qui fondamentalmente d’accordo con te.
Ma, allora, credo comunque dovremmo aggiungere un altro passettino a questo impegno: un pò fare; un pò urlare.
Sai cosa mi ricorda, a suo modo, questa discussione? Mi ricorda una vecchia “Amaca” di Michele Serra nel quale il giornalista protestava contro l’etichetta del “moralismo” che nella pratica quotidiana è in realtà nient’altro che un minimo di morale. Ecco: finché le urla ed il vociare restano solo quelli del “moralismo” o del far niente, la battaglia sarà sempre persa.
Perché, lo sappiamo, specie in una società “della comunicazione” come la nostra, occorre vincere anche lo spazio pubblico.
Il grandissimo Mario Benedetti scriveva “la crisi più grande in questo paese è la crisi dell’esempio”. Appunto. Ma se l’esempio non esce dal suo splendido guscio di buone azioni, come potrà affermarsi?
L’onda silenziosa sarà anche grande, ma come può contrastare un’altrettanto grande onda che martella a grancassa? Forse in decenni. Ma io non credo che questo paese, questa umanità abbiamo decenni da aspettare.
Grazie di nuovo
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Gli uomini che stanno in queste ore raccogliendo centinaia di morti annegati in una bara di legno, non ti pare stiano urlando?
Grazie a te.
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No, non mi pare stiano urlando.
Dopo possiamo discutere su cosa intendiamo con questo concetto, ma a me non pare. Come detto: bravissimi. Ma dov’è il loro messaggio per ricordarci che facciamo schifo? Dai, se non fossero andati lì Boldrini, Kyenge e chi altro, non ci sarebbe discussione sul tema profondo che resta sotteso alla tragedia.
E non mi pare, anche perché temo domani saranno di nuovo a casa ad occuparsi del loro tran tran. Un giorno solo di battagia, per quanto nobile, non basta. E’ una sfida che si deve portare avanti giorno per giorno e in questa sfida limitarsi a tamponare i disastri peggiori non ci fa fare alcun passo avanti.
Io la penso così. Magari sbaglio.
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Non sbagli, è il tuo pensiero, ma dimmi: cosa vorresti? Che ogni volta che escono dall’acqua, si tolgano il respiratore e ti gridino in faccia “Sei un coglione, sveglia! Esci, prendi una muta e vieni qui! Svegliati!”
Non ti pare sia infantile? Ai bambini bisogna dire cosa fare, un adulto dovrebbe sentirlo dentro alla coscienza quel grido.
Non so, forse mi sbaglio anch’io, ma credo che se siamo esseri umani, possiamo solo fare.
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Ti rispondo volentieri, ma dimmi prima: tu credi di vivere in un paese di adulti? Adulti coscienti e responsabili, dico.
Io ho smesso di crederlo da diverso tempo.
Comunque, ti ho promesso una risposta: no, non chiedo che mi urlino in faccia ogni volta che escono dall’acqua. Ma se lo facessero -bene!- finito il loro lavoro, sì. Una volta esistevano gli scioperi, oggi abbiamo altri strumenti a disposizione…
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Io sto facendo crescere due ragazzi, se fossi pessimista, non li avrei nemmeno messi al mondo. Come in tutte le cose, ci sono gli adulti e i bambini, chi vuole crescere e chi neppure gliene frega. Sabato, porterò con il mio coro in teatro uno spettacolo gospel. Musica, nessuno grida, si canta. Insieme alla musica presentiamo un progetto benefico a cui destinare la raccolta fondi. L’anno scorso, un teatro di 660 persone ha donato 7000€ in una serata, in una cittadina di provincia come Biella, mica Montecarlo. Non ha pagato un biglietto obbligato, ha donato. Nessuno di noi sul palco ha urlato, la gente però ha sentito lo stesso.
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Comincio dal fondo: credevo fosse evidente, almeno nel post, che quando dico “urlare” questo deve essere interpretato in senso lato, come mandare un messaggio forte, farsi sentire.
Se dopo non si urla, ma si usano altre forme di comunicazione, per me va bene lo stesso.
Mi permetto anche un inciso su pessimismo ed ottimismo: secondo me, come atteggiamenti mentali sono una balla. Ripeto: anche qui magari qualche studio mi confuta, ma quel che per me conta è il pragmatismo, l’essere realisti.
Io, fortunatamente, per ora non ho il problema di avere figli e probabilmente se fossi “in quelle circostanze” neppure me lo porrei, perché credo che l’aver figli è qualcosa che travalica la razionalità dell’ottimismo/pessimismo. Ma nelle mie condizioni attuali, non posso fare a meno di essere realisticamente critico rispetto a questo stato di cose e di essere pragmaticamente scettico rispetto a certe prese di posizione che fanno del volontariato questione da “anime belle” (non dico sia il caso tuo e non vuole neppure essere un giudizio generale), che poi resta sterile.
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Penso che ognuno sia interpellato nel piccolo, nel quotidiano, nel prossimo più vicino, se non vediamo quello , non ci accorgiamo che chi galleggia è un uomo vero e non vitale.Il cristianesimo è questo vivere gli atti semplici, quotidiani come straordinari.
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Ehm uhm, col cristianesimo con me caschi male….
Ad ogni modo, boh: non saprei darti una risposta. Sì, forse guardare al piccolo è più facile. O forse è vero il contrario: guardare lontano ci alleggerisce la coscienza (sia che non facciamo nulla, perché “non possiamo”; sia che lo facciamo, perché allora siamo doppiamente bravi).
TIpo quanto dice Intesomale qui:
http://discutibili.com/2013/10/04/stefano-pedala/
Vivere la quotidianatià come straordinaria? Mah, mi pare potremmo trovarlo in tante altre forme…
Invece, accorgersi che l’altro è un uomo vero, secondo me dipende moltissimo dalla nostra capacità di metterci in contatto con lui. Parlargli, come descrive Semelin che cito o Browning (pensando ai soldati che si opposero alla Shoah) o qui
http://redpoz.wordpress.com/2012/10/29/33-lars-lambrecht/
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virtuale…
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Ho citato il cristianesimo perchè l’hai messo in mezzo tu, in termini mondani, ma per entrare in contatto con l’altro significa porre attenzione alla sua presenza e al suo bisogno, e questo significa accorgersi di particolari che la distrazione e la superficialità impediscono, ecco perchè parlo del quotidiano , perché se vivi ponendo attenzione ai particolari ti accorgi di tutto.
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Ahn, sì in effetti sì. Chiedo venia. …però io l’ho menzionato come paragone “antropologico” (infatti, il link rimanda -sinteticamente- a Pasolini ed alla “rivoluzione” che lui denunciava a partire dagli anni ’60-’70).
Quanto al quotidiano, in questo senso sì, probabilmente hai ragione. Anche se -parere mio- entrare in contatto è qualcosa di meno di prestare attenzione ai bisogni altrui, è quello che alcuni chiamano “riconoscere” l’altro (come essere umano), ma direi che stiamo andando a distinzioni di fino, sulle quali non c’è un vero dissenso.
La domanda allora diviene: è veramente possibile vivere accorgendosi di tutto? (non dico in senso di materialmente possibile, quanto in senso di umanamente sostenibile). Azzardo di no: per tirare avanti, dobbiamo anestetizzare qualche sensazione.
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perchè si soffre di più ?
ma se non censuri vivi di più…
e maturi di più , nel senso umanamente sostenibile…
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Vero, ma credo vi sia un limite di sopportazione oltre il quale sentimenti e percezioni diventano ingestibili, intollerabili.
Ed, in effetti, concordo con Norbert Elias, secondo il quale il processo sociale tende ad una società sempre meno esposta a questi stimoli, quindi noi ne siamo sempre meno preparati a gestirli (Elias fa il paragone col medioevo, quando morte e dolore erano esperienze quotidiane, quindi comunemente accettate e gestite anche a livello psicologico: oggi, sono “eventi” mediatici e solo di rado ci coinvolgono direttamente…. “storie tragiche nate per gioco, troppo vicine o troppo distanti”, canta Guccini).
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Il fatto che tu parli poco di te e molto di quello che dicono gli altri , e allora non guadagni mai un vero giudizio, un giudizio personale , perchè il giudizio parte dalla propria esperienza.
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In questo commento ci sono due punti sui quali mi sento di dover rispondere:
1. Intanto, dei due post rispetto ai quali abbiamo discusso, in uno direi che ho parlato molto di me. Ed è già un 50%… mica poco!
2. Come stile, non mi piace parlare di me. Credo di poter dire ciò che voglio dire usando parole ed intelligenze migliori delle mie. E mi pare di riuscirci anche discretamente bene, se non altro perché do sempre la possibilità a chi legge di fare un passo oltre.
Capisco che magari a volte si preferisca trovare post più emotivi, ma allora non conviene cercarli da me.
Fatte queste premesse, il fatto che io parli degli altri (“altri” che, fra l’altro, non son mai “persone qualunque” pescate a caso, ma sempre ben qualificate per l’oggetto di discussione), non significa affatto che io non abbia esperienze di questo o quel fatto (tanto per dire, un anno fa ho parlato lungamente di Africa). Semplicemente, magari non mi va di metterle qui in piazza.
Dissento, fortemente, infine, sul fatto che il giudizio parta solo dall’esperienza. Se così fosse, nessuno potrebbe latu sensu “giudicare” alcunché al mondo (o quasi nulla).
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Mi spiace per la mia infelice uscita, volevo solo dire che quel che noi pensiamo sui fatti che accadono passano sempre attraverso una visione della vita e questa è quella che noi sperimentiamo. Grazie é ciao
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L’ha ripubblicato su redpoze ha commentato:
Poco meno di dieci anni fa pubblicai questo post che segue riguardo un’altra “tragedia del mare” (originariamente su I Dicutibili). Non trovo altro da aggiungere, oggi, se non riproporlo integralmente. E chiederci quanto male, quanta malvagità, intercorra in questi dieci anni.
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