e lo chiamano lutto nazionale

Non sapevo, non avevo capito. Non so, non ho capito.
Cosa c’è da capire? Cosa? Quanti?

155 tratti in salvo, 111 corpi. Il resto? Non si sa.
Ecco la contabilità. Di che? Del canale, di “negri”, della legge Bossi-Fini, d’Africa, di migranti, di uomini. Sepolti galleggianti. Sepolti in mare, dal mare; come si faceva una volta con i marinai morti in alto mare. Ma niente salve di cannone, niente squilli tristi di tromba, niente pellegrinaggi ai cimiteri d’eroi.
Ma tanta, tanta, retorica. La retorica di quelli che “mancano i fondi“, “servono politiche comunitarie“, “via la legge Bossi-Fini“, “il Nobel per la pace a Lampedusa” (ma se il Nobel per la pace lo merita qualcuno, semmai sono i superstiti e loro). E tu li ascolti e pensi pure che, sì, hanno pure ragione.
Diavolo d’un mondo!, hanno ragione: hanno ragione a dire che gli uomini non possono continuare a morire così, come animali.

Stamattina ho aperto il giornale, non ho letto nulla. Ho guardato solo le foto: i sacchi di plastica; le etichette senza nomi; le macchie nero-bianche in mare. Cosa avrebbero potuto aggiungere le parole?
Anzi, due cose le ho lette, fra i titoli: ho letto del gasolio ed ho letto di quel pescatore che si è tuffato in acqua per salvare non so quante persone, prima di scoppiare a piangere.
Credo questa storia sia il messagio più forte che ci arriva oggi: piangere.
E’ facile per me, lontano, guardare le foto e sentire la retorica riempire l’immenso vuoto che si è creato. E’ facile restare lucidi, razionali e pensare alle politiche comunitarie; alle tragedie che quelle persone cercano di lasciarsi alle spalle (Eritrei, leggo, l’ennesimo “buon” regime che il nostro Stato continua a supportare). Il difficile, qui a più di mille kilometri dalla tragedia, è mettersi a piangere. Eppure, sarebbe l’unica cosa giusta da fare.

Lutto nazionale, hanno proclamato.
Immagino sia esistito un tempo in cui, anche qui, queste parole avevano un senso. Forse nell’era di un cattolicesimo ancora vissuto, per quanto dogmatico; forse nell’immediato entusiasmo della fondazione di questa “nazione”: forse allora si aveva il sentimento di dolore diffuso che dovrebbe marcare il “lutto nazionale”. Forse allora avremmo sentito pesare sulle spalle di tutti e ciascuno la tragedia, la sofferenza che colpiva l’intera comunità.
Oggi no. Oggi non più. Oggi, nel cristianesimo post-edonista di una società consumista, rattrappita nell’individualismo senza alcuna prospettiva al di fuori di sé; oggi in uno Stato che ha perso qualsiasi senso di cittadinanza e cittadino; oggi un sentimento tanto rarefatto neppure più ci sfiora.
Paroloni, lo so. Eppure dovremmo guardare per un attimo oltre quei paroloni; scostarli per guardare cosa siamo diventati.

E’ tanto facile essere “esseri morali“, provare Mitleid, compassione ed empatia quando il dolore ci è vicino: lo facciamo ogni giorno, anche col nostro cane (avvicinarsi alle vittime, non a caso, è una delle prime lezioni per non restare indifferenti). Ma quanto è difficile quando è così distante, diffuso condiviso: ecco, l’effetto “spettatore”, bystander, più siamo, più confidiamo che ci pensi qualcun altro. Altro che “nessun uomo è un’isola“!
E questo dolore che vorrebbe esser diffuso e calarsi in ognuno di noi, diventare massa e lezione morale, resta sospeso in una nuvola.
Un dolore disperso, che non assume consistenza: in una società di individui anche il dolore, il lutto, ha solo dimensione singolare.

Cosa siamo diventati.
Una società di retorica, come la mia ora; una società che accetta l’esistenza di una legge come la Bossi-Fini; che accoglie i “vaffa” come azione politica; che si indigna per gli scudetti rubati e cos’altro?

Ricordate gli “angeli del fango“? A loro mi viene da pensare in questo momento, a loro che corserò perché sentivano che quella in atto era una tragedia comune, un dolore che li colpiva tutti. Sentivano veramente, nella viva carne, che per ogni pagina di Dante persa se ne andava qualcosa di loro.
E noi? Noi sentiamo che, come predicava John Donne, con ognuno di quei corpi galleggianti se ne va a fondo una parte di noi? Noi invischiati in una sequela di tragedie quotidiane, estemporanee ma onnipresenti, saremo in grado di correre a Lampedusa?
No, io non lo sarei. Infatti sto qui, seduto alla scrivania. Ed ecco che “quelli” lì li chiamiamo eroi. Loro sì: prendono e vanno. E più le nostre misere figure si ripiegano nella retorica, nella quotidianità insensibile al lutto condiviso; più loro si innalzano sulle nostre teste ricurve, si stagliano come giganti. Ma quanto grandi sarebbero in realtà se noi tutti rialzassimo il capo?
Ogni volta che sento queste storie, mi rimbomba in testa quella frase di Brecht: “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi“. Ogni volta che la sento pronunciare, mi sembra sempre che sia detta senza capirla, come un’invocazione ad una vita tranquilla, senza scossoni, che renda superfluo l’eroismo. Io, quando la penso, penso invece immancabilmente che sia un appello a tutti, una chiamata ad esser tutti all’altezza della vita, che allora nessuno sarebbe “eroe”.

Qualcuno era […] perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri.
Qualcuno era […] perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo.
Perché sentiva la necessità di una morale diversa.
Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Sì, qualcuno era […] perché, con accanto questo slancio, ognuno era come… più di sé stesso.

Così cantava Gaber, in una delle sue ultime canzoni. E non importa “cosa” si era. Per questo l’ho cancellato. Perché l’importante era essere.