Say it loud and sing it proud

Non so come faccia la gente a reggere Fiorello. La sua presenza mattutina a RadioDue mi indispone parecchio, ho deciso che non pagherò il canone RAI finché non mi levano di mezzo questo casinista. Tra i seicento buoni motivi per odiare Fiorello, c’è sicuramente l’averci fatto scoprire il karaoke, ma alla sua maniera.

Intendiamoci, il karaoke è di per sè una bella cosa, ma la concezione che ne abbiamo in Italia è totalmente sbagliata e lo rende un intrattenimento patetico da fiera paesana. L’idea che al karaoke si debba per forza cantare lammerda è un assioma consolidato, Vasco-Liga-883 con qualche perla neomelodica ricorrente (gettonatissimi i duetti “Vivo per lei” e “Ti lascerò”), i Negramaro e i Modà e tutte le ultime frontiere dello squallore. Per chi apprezza un certo tipo di musica, la serata karaoke va evitata con cura, pena lo sdegno che ti manda di traverso anche il gin tonic.

Diverso quel che succede tra le mura domestiche, serbo piacevoli ricordi di sfide a Singstar, documentate da video che spero siano morti su degli hard disk accidentalmente formattati, peccato che non si sia mai riusciti a tirar fuori queste perle dalle case e dalle taverne e portarle nei luoghi pubblici.

Come invece sembra accadere -momento esterofilia- in molti paesi, e ci sono una serie di film a documentarcelo, memorabili episodi di canzoni belle interpretate in maniera imbarazzante (e non canzoni imbarazzanti interpretate in maniera semi-professionale) con cui il protagonista della commediola di turno riesce a far breccia nel cuore della controparte.

Un americano che canta al karaoke in Giappone. L’assurda esecuzione abbassata di un paio di ottave di “More than this” dei Roxy Music che ci offre Bill Murray in Lost in Translation è quasi commovente, perfettamente in linea con il mood del film, sorriso-con-lacrimuccia.

Niente a che vedere con l’imbarazzante performance di Cameron Diaz ne Il matrimonio del mio migliore amico, alle prese con “I just don’t know what to do with myself”. Molti -me compreso- preferiranno anteporre al quasi-originale di Dusty Springfield la versione degli White Stripes, ricordando la conturbante presenza di Kate Moss nel video diretto da Sofia Coppola (come uscire dal topic e rientrare dalla finestra).

Altro commedione di un certo livello, 500 days of Summer, e una superba interpretazione di “Here comes your man” dei Pixies per un Joseph Gordon-Levitt alticcio che in quel momento non si poteva rendere conto di essere uno degli uomini più invidiati del pianeta. Per inciso, era un periodo in cui ancora non malsopportavo Zooey Deschanel, che ora mi fa uscire le bolle. Per inciso parte seconda, quella canzone è un tema ricorrente nelle mie vicende personali e questo ne gonfia il significato.

Estendendo la questione alle serie tv, nelle sgangherate feste di The Office il momento karaoke è un grande classico. Kevin Malone che canta convinto “You oughta know” di Alanis Morissette, o lo stesso Kevin alle prese con “I will survive” di Gloria Gaynor interrotto dal fenomenale Michael Scott che improvvisa “Island in the stream” di Kenny Rogers & Dolly Parton in un duetto con Jim Halpert. Se tutti gli uffici avessero dinamiche del genere, altro che mobbing.

E invece abbiamo Fiorello. La nebbia agli irti colli. Le sue cover irritanti. La pubblicità del CantaTu di Giochi Preziosi. Poi ci si offende quando si parla dell’Italia come di un paese culturalmente involuto. Persino gli spagnoli, che hanno gusti musicali medi davvero pessimi, ti guardano di traverso se nomini Vasco Rossi, che manco loro sanno chi è, e per fare un po’ di caciara in una piazza piena di gente brilla devi avere un amico che strimpella Wonderwall con la chitarra, ché con gli Oasis trovi sempre qualcuno che ti viene dietro.