Egitto, economia, diritti
Nel mondo degli studi giuridici chiunque alzi lo sguardo dai codici si imbatte prima o poi nei cosiddetti “Asian values“, ovvero l’interpretazione dei diritti umani propugnata da alcuni paesi asiatici a partire dagli anni ’80, interpretazione incentrata su un concetto “collettivo” piuttosto che individuale di diritto e che criticava fortemente l’impostazione individualista-liberal-democratica dell’Occidente.
Potrà sembrare che questa premessa non abbia nulla a che fare con il tema annunciato dal titolo del post, ma proverò a mostrarvi che non è così…
Nel dibattito relativo agli Asian values, infatti, i commentatori occidentali (insistendo sulla validità e sulla bontà della propria concezione dei diritti umani) si domandavano come fosse possibile che in quei paesi asiatici non vi fossero diffusi movimenti di protesta contro questo modello “oppressivo”.
In effetti, gli eventi di Piazza Tien An Men parrebbero dal loro ragione.
Tuttavia, alcuni anni fa lessi un commento particolarmente efficace sul punto: nei paesi che avevano proposto la “concezione asiatica dei diritti” per tutti gli anni ’80 e ’90 v’era stata un’importante crescita economica. Vietnam, Malesia, Indonesia, Singapore, Thailandia… erano tutti Stati con ottime prospettive di crescita. Le cosiddette “tigri asiatiche”.
Cosa ci porterebbe a dire questo caso?
Finché l’economia funziona, i diritti individuali possono essere tranquillamente messi da parte (non a caso, Singapore è tuttora uno dei regimi più oppressivi al mondo).
E perché lo collego all’Egitto?
Poco meno di tre anni fa (fra gennaio e luglio 2013), quando l’esercito egiziano rovesciò il presidente islamista dei Fratelli Mussulmani Morsi, molti commentatori nostrani si espressero in toni e modi differenti a sostegno di questa mossa.;
Alcuni lo fecero in nome di principi di laicità (da decenni incarnata dall’esercito in Egitto); alcuni in forza del sostegno popolare all’Esercito e al generale Al-Sisi; altri in nome del pericolo islamista dei Fratelli Mussulmani; altri, infine, per l’inettitudine politica-amministrativa dimostrata da Morsi, che aveva condannato il suo paese ad una grave crisi economica.
Personalmente, sin da all0ra espressi -inascoltato- con tutti i miei interlocutori le perplessità per questa mossa: da sempre, infatti, ho timore quando l’esercito assume il potere politico. E certo la crisi economica non mi pareva un argomento sufficiente a giustificare un simile ribaltamento costituzionale. Né il pericolo islamista mi pareva così grave (tant’è che ancora oggi alcune regioni dell’Egitto sono in mano a bande islamiche…).
Questo significa che ritenessi il governo Morsi il migliore possibile per l’Egitto? No di certo! Ma già allora, con qualche anno di anticipo, potevo intuire che il governo Al-Sisi non sarebbe stato migliore… anzi!
Cosa di cui tanti, troppi, connazionali e non solo paiono rendersi conto solo ora, dopo la morte di un ragazzo italiano…
Ma torniamo al tema.
Ci arrivano oggi numerose voci dei crimini e delle violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza (polizia, esercito) egiziane. Esattamente quel che temevo e su cui tanti, lentamente, stanno cominciando ad aprire gli occhi.
Non ho sinceramente idea di come stia andando l’economia egiziana in questo momento, né di quali siano le sue prospettive. Non negative, oso immaginare, visto che non abbiamo ancora visto movimenti di protesta.
Tuttavia, il dato mi pare quantomeno fuorviato, in un paese nel quale le forze armate controllano importanti settori economici -anche affatto collegati alla loro funzione: cito “the Egyptian military has turned into a behemoth that controls not only security and a burgeoning defense industry, but has also branched into civilian businesses like road and housing construction, consumer goods and resort management.The military has built a highway from Cairo to the Red Sea; manufactures stoves and refrigerators for export; it even produces olive oil and bottled spring water“- alcuni dicono arrivi a controllare fino al 30-40% dell’intero sistema economico nazionale (!!) oltre a vaste porzioni del territorio. Ecco, in una situazione simile, com’è possibile immaginare che l’esercito non sia in grado di influenzare -in senso negativo o positivo- l’andamento dell’economia?
E se l’economia (“it’s the economy, stupid!“) determina (o perlomeno influenza grandemente) l’andamento politico… Beh, qualche domanda un pò più approfondita dovremmo porcela.
Conclusioni? Sicuramente poco ottimismo. Per come la vedo, l’Egitto pare destinato a ri-orientarsi verso quello che è stato durante tutto il regime di Mubarak: uno Stato relativamente tranquillo (per quanto potrà continuare così?) e relativamente affidabile a livello internazionale, ma al prezzo di una dura repressione del dissenso intero.
Non molto diverso da quanto era prima della “Primavera araba“, in compagnia di molti altri Stati dell’area…