La sentenza Cucchi e le funzioni del diritto penale (pillole di giustizia)
–premessa: come mia abitudine, questo post non è né un’analisi della sentenza,
né un giudizio sulle responsabilità degli imputati–
Ha destato molto scalpore la sentenza d’appello nel caso di Stefano Cucchi che ha disposto l’assoluzione sia degli agenti che avevano in custodia Cucchi, sia dei medici.
Credo, preliminarmente, che le parole più sagge le abbia dette il presidente della Corte D’Appello di Roma, ben sintetizzate nel titolo “non fu una morte naturale, ma ai giudici servono prove“. Opinione personale, letta e vissuta attraverso le chiavi concettuali e la formazione tipica di un giurista.
Dice il presidente Luciano Panzani:
– E quindi la morte di Cucchi non ha colpevoli, presidente?
«C’è un fatto, certo, che quel ragazzo non è morto di morte naturale. E che a oggi non ci sono responsabili per l’accaduto. Io comprendo il dolore dei familiari, il loro senso di smarrimento. È una morte che non doveva esserci e di cui lo Stato deve farsi carico. Ma una sentenza di condanna non può arrivare sulla spinta dell’indignazione della famiglia, né tantomeno dell’opinione pubblica. Perché condannare persone di cui non si ritiene provata la responsabilità vorrebbe dire aggiungere orrore all’obbrobrio di una morte ingiusta. Capisco che possa creare sconforto ma queste sono le regole del gioco».
[…] L’appello è una garanzia».
– Certo non lo è stato per la famiglia Cucchi.
«Può lasciare l’amaro in bocca, ma il processo penale non è un ristoro. Il processo penale serve ad accertare le responsabilità. E secondo la Corte non c’erano».
Aldilà, come anticipato, delle valutazioni sul caso concreto (che non mi competono e che, senza aver accesso alle prove, non mi sono possibili), c’è una cosa che mi preme cercare di precisare in questa triste vicenda: la funzione del diritto penale.
Il diritto penale ha una funzione principale e preponderante (tanto preponderante da poter essere esclusiva): accertare la responsabilità personale degli imputati.
Il processo penale serve a valutare e decidere se Tizio abbia commesso un fatto e se per quel fatto egli debba essere punito. Il resto, sono questioni collaterali.
Credo d’aver già scritto altre volte che in un processo penale vige uno “standard probatorio” ben definito e preciso, il cosiddetto “oltre il ragionevole dubbio” (art. 530 cpp). Il nostro codice prevede, infatti, che la sentenza di assoluzione debba essere pronunciata anche “quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile“.
Ovvero: per decretare la responsabilità di una persona non è sufficiente che questa appaia probabile (“più probabile che non”, come in un processo civile), ma è necessario che essa sia in grado di resistere ad ogni alternativa ricostruzione dei fatti (in un mix di probabilità statistica azione-conseguenza e probabilità logica di quella stessa conseguenza, ovvero di assenza di logiche alternative – C. Cass. S.U. “Franzese”).
La regola è, quindi, in dubbio pro reo: in caso di incertezza, ogni elemento deve essere valutato a favore dell’imputato.
La ragione di questa impostazione è assai semplice e comprensibile, una volta che se ne scopra ed accetti la premessa fondamentale: il processo penale è uno strumento di garanzia dell’imputato (e di tutti che, potenzialmente, potranno essere imputati). Il processo penale è la concretizzazione dell’habeas corpus, quello che gli inglesi chiamano il “due process” (il diritto ad un equo processo), ovvero che la responsabilità di ciascuno sia valutata e provata secondo procedure garantiste previste per legge. Perché la tutela di un diritto, di ogni diritto, passa in definitiva attraverso un processo. Che, dunque, deve essere giusto.
Questo per quanto riguarda il fine principale del processo penale.
E’ tuttavia noto a tutti, o quasi, che in un processo penale si inseriscono almeno altre due questioni, altre due finalità eventuali ed accidentali. Due aspetti che potrebbero tranquillamente non esserci.
La prima, è quella del risarcimento dei danni patiti dal danneggiato.
Questa è, banalizzando, una comune causa civile che, per comodità, si svolte contestualmente al processo penale e dinnanzi al medesimo giudice. Essa, logicamente, segue le cause del processo civile.
Potrebbe, pertanto, accadere che il giudice assolva penalmente l’imputato ma lo condanni al risarcimento del danno. O viceversa.
Ma una seconda, tacita, funzione del processo penale (di cui son sicuro di aver già parlato) è quella di ricercare una verità storica.
Come ho già scritto -e come ha magnificamente illustrato uno storico del rango di Carlo Ginzburg– il rapporto fra la ricerca della verità storica e quella processuale non è facile. Anzi, è particolarmente difficile.
Perché, come avrete capito dal primo paragrafo, il processo penale parte da una premessa e da una prospettiva radicalmente differenti da quelle della ricerca storica: il processo penale guarda al singolo, ai fatti ad esso attribuibili e alle condizioni per la sua punizione; la storia guarda all’insieme degli eventi, al loro concatenarsi e susseguirsi.
La responsabilità penale è inevitabilmente personale (art. 27 Cost), perché la pena può aver senso se e solo se ricollegata a fatti materialmente e psicologicamente propri (riconducibili all’imputato); a contrario, la responsabilità storica ammette collegamenti più vaghi ed indiretti: nessuno, infatti, contesterebbe la responsabilità di Hitler per la Shoah anche se personalmente non ha ucciso alcuno.
Sebbene sia convenzionalmente accettato che quanto accertato in un processo possa avere valenza di “verità storica”, è sempre necessario prendere questa convenzione con cautela. Ciò è convenzionalmente accettato perché il processo svolge già in sé una rigorosa attività d’indagine, documentazione e ricostruzione dei fatti, facilitando di molto il lavoro degli storici (come concorderebbe Marc Bloch).
E viceversa: il lavoro degli storici può essere di grande aiuto in un processo penale (specie per crimini di massa: questo, per esempio, è particolarmente evidente in Cambogia con DC-Cam che ben prima che l’ECCC iniziasse le sue indagini, cominciò a documentare i fatti della Kampuchea Democratica) nel ricostruire alcuni “elementi di contesto” o aspetti generali; ma questi elementi non potranno, di per sé solo, determinare responsabilità individuali.
Tuttavia, se anche un processo afferma “bianco”, non è scontato che nella storia non si possa concludere “nero”. Dunque, se anche gli ufficiali di My Lai furono assolti, non è storicamente possibile escludere una loro responsabilità storica.
Un esempio particolarmente interessante è certo quello dei “processi per la verità” nell’Argentina post-junta militar: processi penali instaurati al solo fine di accertare i fatti, senza la possibilità di comminare pene; una sorta di ribaltamento radicale di quella che è la logica stessa del processo penale. Ma, appunto, un caso unico e particolarissimo, nel quale, poiché non era possibile punire i responsabili, si è ritenuto che la sola riparazione possibile per le vittime fosse accertare la verità su fatti ancora oscuri.
Concludo tornando alle parole del presidente Panzani: “C’è un fatto, certo, che quel ragazzo non è morto di morte naturale“. Mi sento di poter dire anch’io (come, credo, ogni persona di buon senso) che appare evidente già guardando le foto che Stefano Cucchi non è morto di morte naturale, ma dev’essere accaduto qualcosa. Tuttavia, le prove raccolte nel processo non sono state sufficienti a dimostrare, secondo le regole imposte dall’art. 530 cpp e dai principi di diritto penale, la responsabilità degli imputati personalmente.
Magari lo sono, ma non è stato dimostrato.
Magari la Cassazione ci dirà che non è così… non lo sappiamo.
Dunque, la corte d’appello non poteva che assolvere gli imputati: “perché condannare persone di cui non si ritiene provata la responsabilità vorrebbe dire aggiungere orrore all’obbrobrio di una morte ingiusta“.
Per fortuna o purtroppo, i due piani dell’indagine (penale e storica) e le due funzioni che si son saldate nel processo devono essere distinti. Per quanto non sia facile.
Si potrebbe quindi concludere citando Pasolini “io so, ma non ho le prove“: sappiamo che, storicamente, qualcuno ha causato la morte di Cucchi. Ma non abbiamo le prove.
red, grazie. se non l’avessi fatto di tuo, ti avrei chiesto di scriverlo.
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Ma tu sai, cherì, che ti conosco e anticipo i tuoi desideri!
😉
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A quando le pubblicazioni? Ché fidanzati già lo siete… 😀
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Solo se offici tu, Max…
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Venite a Roma e organizziamo con Marino che mi fa da assistente 😀
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L’ha ribloggato su Io, me e me stessa – Historia de una mujere ha commentato:
Bisogna ringraziare Redpoz, perchè, con estrema chiarezza, pone l’accento su una aspetto essenziale di questa vicenda. Stefano Cucchi è stato prima picchiato, da chi dovrebbe rappresentare lo Stato e difendere i cittadini, e poi curato, con incuria assoluta, da chi lo Stato dovrebbe rappresentarlo e i cittadini curare. Un doppio sfregio, alla res publica, che siamo noi, non il nostro prossimo. Noi, un per uno. Un terzo sfregio lo ha apportato la magistratura e il corpo inquirente, che non sono stati in condizione di dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio ciò che è evidente agli occhi di chiunque. Cucchi è stato ucciso tre volte, da tre diversi poteri dello Stato. Uno francamente delinquente, il secondo, che dovrebbe fare della pietas il suo vessillo, assolutamente privo di umanità, il terzo, serenamente incapace.
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Questo non è esattamente quello che scrivo io…
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E hai perfettamente ragione. Da qualche parte un pezzo del commento al reblog è rimasto impigliato nella rete, volevo scrivere, esattamente:
Bisogna ringraziare Redpoz, perchè, con estrema chiarezza, pone l’accento su un aspetto essenziale di questa vicenda, la differenza tra verità storica e verità processuale.
Ora ammendo mettendolo in grassetto nel commento.
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Grazie, lo apprezzo.
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Post straordinario che mi son permessa di ribloggare perchè in questo caso la discrepanza tra realtà processuale e realtà storica evidenzia, più che mai, l’incapacità del potere inquirente nel provare l’ovvio
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Complimenti per la chiarezza. Ancora una volta (ho già espresso questo pensiero in un commento a un tuo recente post) si dimostra che su stampa e nell’opinione generale prevalgono le reazioni di pancia.
Dato per scontato che Stefano Cucchi è vittima e comprendendo lo sdegno e il dolore della famiglia, non mi sento sinceramente di mettere alla gogna il giudice che ha emesso la sentenza, e tu hai spiegato benissimo perché.
Mi pongo tuttavia questa domanda: accertato che Cucchi non è morto di morte naturale, possiamo indignarci per la superficialità delle indagini ante processo e dell’omertà imperante nel contesto in cui Stefano si è trovato?
I tuoi post sono sempre molto preziosi. Grazie!
Primula
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Grazie a te.
Dell’omertà sicuramente possiamo e dobbiamo indignarci.
Quanto alla superficialità delle indagini, non posso esprimere giudizi. Non credo che le indagini siano state tanto “superficiali”, altrimenti non si sarebbe mai arrivati ad un processo.
Però il diritto non è una scienza esatta.
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Ok, ok. E’ anche vero che il diritto penale, con l’insieme dei suoi principi garantisti sparsi per l’intera costituzione, è una disciplina interpretata in maniera soggettiva. Ok, non siamo più dinnanzi ad un sistema inquisitorio, ma accusatorio, il presunto colpevole è un imputato solo ad inizio processo, nessuno è colpevole se non a sentenza definitiva, ma al centro del diritto penale, oltre ad accertare la responsabilità di chi commette il reato, esiste un secondo fine, ossia punire chi ha violato i diritti fondamentali dell’essere umano. Responsabilità=punizione. Questo assioma “al di là di ogni ragionevole dubbio” ha qualcosa di spaventoso. La sua interpretazione è al confine fra la certezza del diritto, e quindi di punire il colpevole, e la possibilità di trovare una scappatoia per assolvere chi non è al 200% colpevole. e sottolineo al 200%. mettiamo in conto che gli imputati sono stati indagati per omicidio colposo, quando si poteva anche assurgere all’omicidio preterintenzionale (correggimi se sono imprecisa), mettiamo che se in quella stanza, in quell’ospedale dove è successo il fatto, c’erano quelle sole persone finite al processo, come si può escludere la responsabilità? è come se la Corte abbia ammesso la pure remota possibilità che sia stato un terzo, un fantasma, un alieno che abbia causato la morte di Cucchi.
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No, calma.
Son d’accordo che il fine sia poi quello di punire, ma occorre punire solo colui che merita la pena (art. 27 Cost): mettere un innocente in carcere è inutile e deleterio e si può sapere se uno è innocente solo DOPO il processo.
Partiamo da questo, altrimenti tutto il ragionamento non ha senso.
Dunque, è necessario che la prova raccolta sia solida.
Parlare di una prova al “200%” è fuorviante: non si tratta di trovare una percentuale di prova che dia la certezza (75%? 90?), quanto piuttosto di trovare una ricostruzione che -alla luce delle leggi scientifiche- sia logica ed escludere eventuali ricostruzioni alternative. Questo il senso della Cassazione “Franzese”.
Personalmente non trovo niente di spaventoso in questo.
Non ci trovo nulla di straordinariamente “soggettivo”, né direi che il sistema inquisitorio o accusatorio c’entra alcunché (una prova è una prova: la differenza lì è solo come la si cerca).
Ovvio che esista un margine di valutazione nel quale solo il giudice può entrare, ma appunto per questo esistono garanzie precise (motivazione ed appello).
Inoltre, il giudice può valutare e qualificare diversamente i fatti rispetto alla ricostruzionel del pm (il pm potrebbe dire omocidio colposo ed il giudice ritenerlo doloso, ad esempio). Non v’è una demarcazione insormontabile, per quanto occorra -anche qui- una puntuale motivazione.
Come ho scritto, in un processo civile la struttura logica è diversa: lì vige una regole di “più probabile che non”, quindi il giudice “pesa” le due ricostruzioni e valuta quella più credibile in reciproco confronto. Qui uno dei piatti della bilancia (la non colpevolezza), così potremmo dire, fisso e solo quando il “peso” probatorio dell’altro sia superiore potrà decretarsi la colpevolezza.
La corte non dice che “è stato un fantasma” o simili: dice “io qui non posso addentrarmi oltre” perché il suo sentiero finisce dove finiscono le prove e la legge vi pone un limite per i casi di dubbio.
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Nulla da dire, per carità, allora a questo punto come sosteneva qualcun altro nei commenti., la colpa andrebbe cercata o nella insufficienza delle prove, magari per superficialità, o peggio, nel lavoro svolto dalla magistratura.
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Potrebbe essere, questo noi non lo possiamo sapere, né giudicare.
Come ho risposto sopra, se le indagini fossero state totalmente insufficienti o superficiali, non si sarebbe neanche arrivati a processo.
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Grazie delle delucidazioni!
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Grazie per queste tue considerazioni, che aprono parecchi piani. La questione del tempo della giustizia, come diceva recentemente Beniamino Deidda in un incontro pubblico, finisce però per annullare, troppo spesso, molte considerazioni teoricamente inoppugnabili de iure.
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Tutto giustissimo.
Ma infatti qui l’indignazione non è per il lavoro della magistratura, che sicuramente ha fatto il suo dovere, ma per quelle forze dell’ordine che hanno coperto, nascosto, mal celato quanto accaduto. Assassini e complici, anche se assolti.
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In teoria sì, ma in pratica la distinzione per il pubblico profano non è né immediata, né tanto rilevante.
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