La verità – ? – Aragil
(Questo è il soundtrack, e il post è dedicato
alla guerra, ai nomi, alle facce,
a tutti quelli che si parlano addosso)
Era inginocchiato di fronte alla betulla. Ripensò agli anni, li mise in fila, ne cambiò l’ordine nei ricordi, immaginò di scomporre il tempo della propria vita violentando la direzione delle premesse e delle conseguenze. Il senso della responsabilità di ogni decisione presa o evitata si sollevò, come il piccolo vortice di foglie sulla ferita del fosso, accanto alla strada sterrata. Per un istante, le gocce di quella strana pioggia di luglio smisero di graffiargli il collo e le braccia; l’umidità delle ginocchia conficcate nella terra sotto il peso della sua schiena e dei suoi pensieri divenne irrilevante, quasi non la sentì più. Gli altri, quelli là, ciascuno col proprio nome in tasca e il pugnale sulla tavola dei dadi, aspettavano pazienti. È un privilegio, la pazienza degli altri, viene concessa ai principi, ai folli e ai santi. Lui era tutte e tre le cose. O almeno, pensavano che lo fosse. Lui, dentro di sé, non conosceva più il significato di quelle parole.
Per molto tempo, aveva desiderato, come tutti quelli che lo accompagnavano, che i poeti disegnassero la sua vita sulla carta. Che raccontassero di lui, delle sue parole, delle sue gesta sotto le mura di qualche città dell’Oriente. Per molto tempo, aveva cavalcato immaginando di vivere la rappresentazione di un’esistenza eroica. Ma l’illusione era durata fino al giorno in cui si era ritrovato, veramente, nella battaglia. Quando le prime frecce avevano colpito l’avanguardia della sua armata, e lui dall’alto aveva osservato gli schieramenti e immaginato che le trombe suonassero per lui e lui soltanto, un uomo era caduto, non lontano da lui, il sangue in bocca, le parole che sgorgavano dal foro nella gola. In quel momento, si era riscosso, aveva guardato intorno a sé, e aveva visto che gli altri folli santi principi dell’impresa arretravano piano piano, lasciando il lavoro ai fanti, ai fanti il pericolo, la gloria senza nome di mille nomi su un futuro memoriale di pietra. Aveva provato un senso di vuoto, e di vergogna, si era sentito come la carta che avvolge il dono. Ed era partito alla carica. I vortici della battaglia, prima lagrangiani, poi escheriani, infine confusi come una tempesta a mille dimensioni, lo avevano trascinato a mozzare teste, a ricevere pugnalate alle gambe, entro le mura, fuori le mura, sotto al contrafforte, dietro il terrapieno. E lì aveva visto il bambino. Aveva guardato il bambino. Lontano, a mezzo miglio dal sangue e dal fuoco, i principi santi folli con cui aveva cavalcato raccontavano la verità delle loro prodezze, tutti eroi, tutti immobili, alle orecchie e ai culi spalancati dei bardi. Lui aveva guardato il bambino, il bambino aveva guardato lui. Poi era sceso da cavallo, si era avvicinato, e il bambino aveva estratto un pugnale e aveva cercato di colpirlo, urlando il nome della città assediata. Aveva schivato un fendente, poi un secondo fendente. Infine era arrivato un soldato amico, e aveva colpito il bambino con la picca. Il soldato urlava. Il bambino urlava. Urlava anche lui, a quel punto. Senza pensarci, aveva abbracciato la caduta del piccolo corpo offeso, lo aveva stretto a sé, era rimontato in sella con lo sforzo di due corpi in volteggio, ed era fuggito dalla mischia, al galoppo.
A soccorrerlo furono i medici e i bardi, tra gli sguardi spaventati degli altri capitani. Si era svegliato nella tenda, le sue ferite ricucite, il suo corpo che guariva, il bambino, sdraiato accanto a lui, bruciava di febbre e respirava dal solo polmone che ancora funzionava. Era morto quella sera stessa. Lui aveva fatto avvolgere il piccolo corpo senza nome in un lenzuolo bianco, e aveva dato ordine di cercare una betulla bianca; quando l’ebbero trovata, si fece portare una vanga.
Seppellì il bambino sotto un albero bianco come quello che i suoi genitori avevano piantato il giorno in cui lui era nato. E poi ci si inginocchiò davanti, e attese. Era sporco di terra e di pioggia, sordo alle verità del suo tempo squillante e alle voci rumorose di coloro che dettavano le proprie storie alle orecchie distratte di altre voci bugiarde. Ripensò alla guerra chiamata pace, a chi mente credendosi onesto, a quella parola enorme che i babilonesi dicono anaku e i greci egô, al senso smisurato dell’azione annunciata, al marchio del sangue sull’azione compiuta. Cercò un senso alla storia, grande abbastanza da chiamarsi Verità, ma non troppo grande per poter essere rappresentato su uno stendardo, o una bandiera. Non troppo grande per offuscare la vanità ridicola degli eroi.
Giunse un messaggero. Gli disse che l’armata era pronta a partire, la città conquistata. Lui chiese se avessero scoperto il nome del bambino. Il messaggero si allontanò.
Giunse un secondo messaggero. Gli disse che la madre del bambino era sopravvissuta alla battaglia e diceva che il nome era Aragil. Lui non disse nulla, ma lo incise sulla betulla, in lettere greche, babilonesi e armene. Anche questo messaggero si allontanò.
Poi giunse un terzo messaggero, sporco di un lungo viaggio. Gli porse un fiore bianco appassito dalle settimane, e congratulandosi gli annunciò che la principessa aveva partorito, e che era dunque divenuto padre. Allora lui si alzò, e disse all’uomo di ripartire immediatamente, di ordinare che a sua moglie fosse donato tutto ciò che voleva. E che a suo figlio fosse dato il nome: Aragil.
Quando qualcuno descrive la guerra senza averla vissuta davvero rimango sempre senza parole; credo che immaginarsi situazioni estranee sia una delle cose più complesse al mondo. Ho trovato bellissimo il dettaglio delle trombe che suonano..
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