Dominga – Le Quattro Verità

cropped-cropped-ggg11

PARTECIPA AL CONCORSO LETTERARIO. CLICCA SULL’IMMAGINE.

[un racconto dalle molte verità – raccontateci anche voi la vostra su http://concorsidiscutibili.wordpress.com]

Sono seduto sul sedile posteriore di un’auto che non conosco con un uomo che non conosco alla mia sinistra, che mi punta una pistola nelle palle, mentre alla mia destra una donna con un seno che sembra un monumento al sistema solare mi stringe forte il bicipite e continua a ripetermi che andrà tutto bene se mi decido a parlare. E mi chiama Stefano. Il che può sembrare strano, visto che io non mi chiamo Stefano. Insomma, una situazione non esattamente ideale per la tarda serata di un venerdì.

Facciamo un passo indietro. Circa cinque ore prima, alle diciannove, sono al banco di un bar dove si fanno incontri interessanti. Sto bevendo un americano – se avessi voluto sbronzarmi, non sarei andato in un locale per single. Una tizia mi punta in modo non troppo convinto. Butto lì un paio di battute, ma poi le faccio capire che sto aspettando qualcuno. Non perché sia vero, intendiamoci. Ma è bionda, e a me le bionde non piacciono tanto, preferisco il tipo latino. Finito l’americano, ne ordino un altro, e poi vedo una mora sui trentacinque, bella, così bella che spicca anche in un posto in cui tutte le femmine presenti sono tirate a lucido come auto da esposizione. Le sorrido, e lei mi sorride. Mi avvicino, e mi presento. Sembra sinceramente interessata alla mia professione di revisore dei conti, il che mi fa capire che o è tremendamente gentile, ma proprio a livelli prossimi alla follia, o le piaccio. Anna, così dice di chiamarsi, è chiaramente sudamericana, o spagnola… e lavora nel ramo dell’organizzazione di mostre ed eventi, per una grossa compagnia e cristo che bocca e che tette. Poi succede una cosa che ha dell’incredibile. Mi dice che si occupa di trovare nuovi espositori e bla bla bla, quindi si protende, sfiorando il bicchiere di prosecco con il tripudio delle sue grazie, e conclude: “ma stasera, se ti va, mi occupo di te”.

Venti minuti più tardi siamo in una camera d’albergo, abbastanza lussuosa, lei ha scelto il posto e ha insistito, dicendo che la notte è già pagata per una convention: uno degli invitati non si è presentato all’ultimo momento. Diciamo pure onestamente che ascolto una parola su tre, e mi concentro sul dire solo quelle giuste. A quanto pare le azzecco, perché poco dopo la mia lingua è impegnata in tutt’altra attività, un’attività che mi offre uno scorcio del suo seno dal basso, e la sua pelle e il suo sapore sono come gelato di crema e crema calda di lampone. Io me la cavo abbastanza in queste cose, ma lei sembra divertirsi davvero un sacco, anche dopo i preliminari, e vuole il bis e pure il tris, così verso le undici e qualcosa sono vuoto come le tasche del tizio che affitta la sede a Forza Italia e sfiancato come se avessi fatto su e giù per dieci piani di scale, ininterrottamente, per tre ore. E a quel punto la porta si apre, entrano due tizi con delle pistole in mano, ci ordinano di vestirci e ci portano direttamente al garage sotterraneo, dove veniamo invitati, in modo un po’ rude, ad accomodarci in una BMW.

Ecco, questa la premessa. La BMW accosta in una piccola traversa di un viale del centro, e vengo cordialmente spintonato, insieme alla mia occasionale compagna, nel vano di un palazzo piuttosto moderno. Quello che guidava schiaccia il bottone per chiamare l’ascensore. L’estimatrice delle mie protuberanze mi prende di nuovo per il braccio, e, chiamandomi ancora Stefano, mi sussurra di non fare cazzate, per carità. Io, da quando siamo in quattro, non ho detto una parola, e lei sembra lievemente sorpresa dal mio silenzio.

Le porte dell’ascensore si aprono, e la canna della pistola mi invita a muovermi, io obbedisco e apro la bocca per la prima volta, per protestare: “vado, vado, ho scopato per tre ore, ho i riflessi un po’ rallentati”.

Guidatore schiaccia il numero otto sulla pulsantiera. Le porte si chiudono. Tizio con pistola sta fra me e la donna. Il display dei piani dice: zero. Poi dice: uno. A quel punto, piego la testa verso il basso, reggendomi lo stomaco, e faccio il verso di uno che sta per vomitare. Guidatore abbozza, mentre Tizio con pistola urla chiedendomi che cazzo sto facendo, e mi dà un calcio nel fianco. Mi scuso, mi rialzo. Il display dice: due. La penna bic passa direttamente dalla mia tasca alla mia mano destra e dalla mia mano alla sua gola. La pistola passa dalla sua mano alla mia mano sinistra e dopo un secondo la canna è infilata sotto la gola di Guidatore. Mi faccio passare gentilmente l’arma che ha in tasca, poi gli rompo tutti i denti con la mia, usandola come una mazza. Il display dice: quattro. Schiaccio il tasto stop. La donna, in tutto questo, ha spalancato la bocca, e sta emettendo un sottile strillo acuto, debole debole, quasi ultrasonico.

Guidatore è a terra che sputa sangue e pezzi di gengiva e rovista alla ricerca di qualcosa, un cellulare, presumo. Gli sparo un colpo in testa, dall’alto in basso, il silenziatore produce un sibilo che si sovrappone a quello emesso da Anna. Che non si chiama Anna più di quanto io mi chiami Stefano.

Le do una sberla, poi un’altra. Lei scuote la testa, come per scacciare un’allucinazione, e fissa gli occhi nei miei. Le dico di non uscire dall’ascensore. Per nessun motivo. Lei annuisce, bianca come una mozzarella ma lucidissima. Schiaccio di nuovo il tasto otto.

Quando le porte si aprono, lascio la testa di Tizio con pistola a bloccarle, ed esco con passo rapido ma tranquillo. Ci sono due uomini nel corridoio, che non fanno in tempo a estrarre le pistole, perché non se lo aspettavano, poveracci. Vanno giù come due saponette sul muro della doccia, lasciando due strisciate di sangue sulle pareti. Ci sono tre porte. Una è il bagno. Appoggio l’orecchio, nulla, decido che è sicura. La seconda non so cosa sia, ma anche da lì non proviene alcun suono. La terza è la mia meta. Busso. Qualcuno da dentro chiede se “lo abbiamo trovato”. Dico: “sì”. Silenzio. Non riconosce la voce. Apro con un calcio, sono in due, un gorilla e il mio bersaglio. La pistola nella mano sinistra spara due volte e il gorilla si accascia. A quella nella destra basta un colpo solo, in piena fronte. Torno in corridoio. Apro le porte del bagno e della stanza misteriosa, che si rivela un ufficio. Entrambi i locali sono deserti. Ho visto cinque telecamere. Potrebbe essermene sfuggita qualcuna. Torno in ascensore. Lei è ancora lì. Schiaccio il piano terra, ci facciamo altri otto piani in compagnia dei cadaveri di Guidatore e Tizio con pistola. Prendo la donna per un braccio, e la costringo a uscire in fretta dal palazzo. Estraggo un paio di chiavi dalla tasca della giacca, e apro un’Alfa Romeo parcheggiata a trenta metri dall’ingresso.

“Sali. Ti spiego in auto.”

E lo spiego anche a voi. Stefano Valle è uno dei più grandi nomi del crimine organizzato milanese. Ha affari in ogni ramo immaginabile dell’illecito. Non è affiliato alla mafia, ma fa affari con tutti. I suoi capitali sono esteri, nessuno sa nulla di preciso su di lui. Non si sa che faccia abbia, non ha un profilo pubblico, anzi, non si sa neppure se si chiami davvero così. Probabilmente vive una vita normalissima da benestante uomo d’affari, chiamandosi Alberto Rossi o Mario Bianchi, e nessuno sa che il rispettabile signore che prende il caffè nel tal bar e mangia aragoste nel tal ristorante è quello Stefano Valle di cui si parla nel giro. Anzi, nei giri. In quasi tutti i giri. Si hanno pochissime informazioni su di lui. Una, in particolare, era trapelata nelle scorse settimane. E cioè che la tipa di Stefano Valle fosse una donna dell’Ecuador, in Italia per un periodo di lavoro di pochi mesi, di nome Dominga Villa Suarez. Sulla carta, una mercante d’arte. Di fatto, una piccola avventuriera di cui non si sapeva nulla di preciso.

Un’altra informazione interessante, che conoscono solo i diretti interessati, è che Michele Scalia, pezzo grosso del mercato della cocaina a Milano Nord, doveva a tutti i costi arrivare a Valle e farlo fuori, per una specie di ultimatum, un dictat ricevuto da un certo cartello a cui doveva dei favori. Scalia è un uomo pericoloso. Molto, molto pericoloso. Anzi, a questo punto, direi che lo era, visto che lo ho lasciato a innaffiare la scrivania di sangue con un buco in mezzo alla fronte. Così Valle, per togliersi di dosso la minaccia del siciliano, e mandare un messaggio forte e chiaro al cartello, ha pensato bene di chiamare Dominga e dirle di fare una soffiata al nemico. Lei è andata da quelli di Scalia e ha detto che in cambio di duecentomila euro si sarebbe fatta trovare con Valle in un bar che lui considerava sicuro. “Uscirò con lui dal Velvet Sky alle otto meno un quattro, otto al massimo.”

Ecco. Ora ne sapete quando lei. Quindi torniamo pure a dov’eravamo rimasti prima della spiegazione. Sono al volante dell’Alfa, mi sono tolto la parrucca, il finto pizzetto e il grosso neo che avevo sullo zigomo, e la mia compagna mi guarda con un’aria interrogativa resa un po’ insolita dalla presenza di numerose chiazze di sangue sul suo mento e sulla sua camicetta. Le parlo lentamente, perché capisca bene tutte le parole.

“Quando Valle ti ha detto di rimorchiare uno sulla quarantina e di uscire dal bar con lui, non ti ha spiegato che in realtà in quel bar sarei stato appostato io.”

Silenzio.

“Eravamo d’accordo. Sono un professionista. Credendo che fossi Valle, i suoi mi hanno portato da Scalia.”

Ancora silenzio. Dominga non dice nulla.

“Sei molto bella, lo sai?”

“Anche tu.”

Rido.

“No, non è vero.”

Lei si fa cupa in viso.

“Sì invece.”

Accosto, siamo dalle parti di San Donato ora, vicino a un cantiere. Lei inizia a preoccuparsi. Mi chiede perché l’ho portata lì.

“Quando Valle ti ha spiegato il piano, tu hai accettato di venire rapita insieme a me dagli uomini di Scalia. Perché?”

“In che senso?”

“Dopo aver ucciso Valle, cioè me, per quale motivo gli uomini di Scalia avrebbero dovuto darti i tuoi soldi e lasciarti andare?”

Silenzio.

“Dominga, ora ti racconto la storia dei quattro piani. Al primo piano, ci sono gli uomini di Scalia. Tu dici loro che gli porti Valle. Al secondo piano ci sei tu che in realtà sei d’accordo con Valle, e insieme fottete me. Al terzo piano, ci siamo io e Valle che fottiamo Scalia a tua insaputa. Al quarto, però, ci sei tu, che a Scalia avevi raccontato la verità dall’inizio. Lui sapeva che gli avrebbero portato l’uomo sbagliato. Quadruplo gioco.”

Ancora silenzio.

“Qui posso solo andare a intuito. Presumo che a quel punto mi avreste ucciso, e poi Scalia avrebbe finto di credere che Valle fosse morto, per fargli abbassare la guardia e colpirlo alla prima occasione. Ora, Dominga, hai dieci secondi per convincermi che mi sbaglio.”

Lei si china e le sue labbra si posano sul cavallo dei miei pantaloni. Sorrido, anche se lei non può vederlo. Poi estraggo la pistola. Quattro in una sera sono troppe alla mia età, anche con una come lei. Il silenziatore attutisce il colpo, alla schiena, all’altezza del cuore. Dominga muore senza un lamento, con la mia lampo fra i denti.

Avvisto una figura appoggiata a un palo, e riconosco Pietro, il mio contatto per le pulizie di fino. Lavora al cantiere e suo fratello demolisce auto. Gli lascio il pacchetto completo. La bellezza dell’Ecuador finirà sotto tre metri di cemento, nelle fondamenta di un nuovo parcheggio, e la BMW domani alle cinque di mattina sarà diventata un cubo di latta nel cortile di uno sfasciacarrozze di San Giuliano.

E io ho finito le sigarette, e non ho con me il tesserino per il distributore.