Il Bar Blu*

800px-FemaleH.lividum

(*Questo è un racconto. Ha un inizio, una fine e dei sottintesi. Purtroppo, è anche molto introspettivo. Permette parziali identificazioni, talvolta le richiede. Viene raccontato attraverso gli occhi di una persona che parla come voce narrante. Inoltre, non succede quasi nulla. Non è un post nostalgico, non è un post sul valore dell’amicizia e neppure sulla bellezza delle piccole cose. Non vi farà sentire meglio, o peggio, probabilmente non vi farà sentire nulla. Semplicemente, è un racconto. Per leggerlo non serve essere stati al Bar Blu, e neppure aver letto La Coscienza di Zeno. Non essere stati al Bar Blu è colpa veniale, mica tutti possono passare dal Bar Blu. Non aver letto La Coscienza di Zeno è più grave, ma non vi giudicherò. Inoltre, questo racconto non parla di sesso, non ci sono liberazioni, dominazioni, umiliazioni, donne a cui un manager mette un dito nel culo emancipandole finalmente da un marito noioso o da un padre che non giocava con loro, non le portava alle giostre, in libreria o alla fiera dell’interesse adolescenziale. Non vi farà capire cose di me, a meno che non le conosciate già, e se alimenterà vostre fantasie esistenziali io declino ogni responsabilità, e la declina anche l’io narrante. Io vi voglio molto bene. L’io narrante invece pensa che siate tutti dei cialtroni.)

Si domandò se, per sfuggire ai ragni che gli camminavano nel cervello, e per afferrare la mosca, quella mosca banale che ci rende tutti simili nel pensarci diversi, per venire a quell’esigenza di normalità nata col rovesciamento delle proporzioni, nel tempo in cui tutti sono il poeta e nessuno è il lattaio, ecco, per tutte queste cose, di fronte a tutte queste cose, di fronte alla fame e alla sete, di fronte alla febbre di mesi, di fronte alla rabbia per tutta la bellezza di altri luoghi che non poteva essere sua, si domandò, dicevamo, se. Si domandò se il suo spazio, ora che le cose prendevano da sole la forma degli anni che aveva addosso, ora che si sentiva sempre meno giovane, ora che la rotondità del mondo e quella di un culo gli si confondevano in testa e sembravano aver vinto ai punti anche se maledizione la fine del match era lontanavicina, si domandò, dicevamo, se il suo spazio. Si domandò se il suo spazio di azioni e di pensieri, la sua camicia chiusa da una cravatta come un sacco della spazzatura o aperta sul petto a mostrare i segni di quello che pensava sarebbe stato – this was supposed to be the future, cantano alcuni – si domandò appunto se quello spazio potesse trovare in lui un compimento, o in un’altra persona, e soprattutto si domandò se. Si domandò, quindi, nelle mattine rese importanti dal fatto che poi ci sarebbe stato un pranzo qualunque, davanti a uno schermo o davanti a una faccia o davanti al pomeriggio, e nei pomeriggi a cambiare l’ordine delle matite e delle dita e delle mancanze e delle presenze, nell’ipotesi in cui una vita un lavoro una città una donna una fica un’automobile diversi o nessun lavoro nessuna città nessuna donna nessuna fica nessun’automobile potevano definire o non definire il risveglio successivo, si domandò se.

Si domandò se in questo groviglio inventare un amore e un mondo fosse meglio o peggio che inventare L’Amore e Il Mondo. Al parco, un ragazzo suonava i bonghi, una ragazza faceva stretching, una donna faceva yoga, un piccolo branco di disperati dissimulava benessere con un chilum pieno di finte nuvole. Si domandò se le cose che lo avevano sostituito nella serenità dell’antifrastica Serena coi suoi gatti allineati nel cervello e i minuti di una qualità diversa fossero meglio o peggio di altri rimpiazzi, di altre pezze, di altre soluzioni.

Si domandò se la soluzione potesse essere negare il viaggio, negare il corpo, negare la direzione, negare la consistenza fredda e vera delle piastrelle blu sulle pareti blu del bagno blu del Bar Blu.

Il tram non arrivava, così attraversò la strada con una vaga memoria di pantaloni di tela chiara, distanti, perduti, vivi come la fotografia ovale sulla pietra grigia di un cimitero, sul viso squadrato di un loculo. Si avvicinò al popolo del parco e rifletté sulla donna che aveva lasciato. Ci sarebbe stato, prima o poi, un impacco sulla fronte di lei, e le gocce d’acqua di quell’impacco sarebbero scese dalla fronte agli zigomi al mento quadrato alle labbra lunghe e sottili e avrebbero innaffiato un bacio, e un nuovo giorno, e tutto quello che era stato grande sarebbe diventato piccolo.

E col ragno di lui, con la sua mosca da afferrare, tutto ciò non avrebbe avuto alcun legame. Sapeva infatti che le felicità degli altri lo sgretolavano piano piano perché gli impedivano di concepire la propria. Perché le avrebbe volute per sé. Avrebbe voluto essere l’amore e il significato di ogni uomo e donna che incontrava, eppure i contenuti delle loro vite, per lui, non significavano nulla. Nulla lo poteva guarire dal disprezzo per se stesso, per la propria incapacità di aggiungersi come predicato alla copula, e di sentirsi una piccola parte di un mondo tentacolare, e molteplice. Le sue donne erano state sempre l’una la cura dell’altra, la sua famiglia era sempre stata una cicatrice che non si vede perché è sulla schiena, la sua casa un luogo di passaggio, dolore allo sbarco, dolore alla partenza.

Si domandò se ci fosse, da tutto questo, una via d’uscita, o se sarebbe stato per sempre condannato a stare bene solo con il gin. Davanti ai suoi occhi si accavallavano gli eventi dei mesi successivi, futuri, e gli sembravano desolati, come le rovine di una città che avrebbe continuato a bruciare silenziosa.

I ragazzi col chilum gli chiesero se voleva fumare con loro.

Lui sorrise e disse di no. E si sorprese a immaginare la propria violenza. Prenderli a calci prima che potessero alzarsi. Così, senza un motivo.

Come Salinger soldato.

Con un motivo

Il motivo era che la cura non erano loro. E non era il lavoro. E non era una donna, nessuna donna, mai, perché anche le primavere della più bella delle luci e le notti più magiche e i profumi più lontani erano un giro sulle giostre, e poi si scende. Non era quella città, non era un’altra città. Non era salvare la sua famiglia, o seppellirla. Non era mettersi a cercare se stesso in una filosofia di vita, e non era nemmeno disprezzare la società di chi si finge sano.

La cura non esisteva.

Era per quello che amava così tanto la chiusa della Coscienza di Zeno, e disprezzava con odio sanguigno chi ci vedeva un messaggio di speranza.

“Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritroveremo la salute”.

Se per voi questa è speranza, lasciate le leve e le fabbriche e mettetevi a guardare il cielo, pensò. Ma lui era condannato a cercare di costruire un altrove, non poteva smettere, non poteva fermarsi, anche se in questa impresa, capì, sarebbe stato sempre solo, troppo solo.

E ubriaco. Troppo ubriaco.

Come nel bagno blu del Bar Blu.