Gaberricci vs Bleachedgirl – Femminicidio, il perché di una parola- Perché sì

Perché sì.

[Qui il post di Gaberricci]

Qualcuno ha detto: il razzismo finirà quando si potrà dare dello stronzo a un nero.
Ma allora è lecito credere che, come sono sparite le streghe il giorno in cui abbiamo smesso di bruciarle, così finirà il sessismo quando smetteremo di parlare di violenza di genere e parleremo di violenza senza specificazioni? Quando finiremo col reclamare inasprimenti delle pene per il femminicidio, cancellando anzi questa parola dai nostri vocabolari? 

Una buona volta vorrei dire che è vero, che è un femminismo deludente quello che raffigura la donna quale costante vittima di società maschiliste, che il femminismo dall’occhio sempre livido è politicamente regressivo. E dal momento che maschilismo e galanteria vengono fuori dalla stessa matrice, anche quel femminismo che disegna la donna quale essere da accudire e preservare, a suon di amori cortesi, cene pagate e sportelli aperti, è socialmente regressivo. Ché l’immagine della donna che non si tocca neppure con un fiore, sebbene armata di stoviglie, è pur sempre sorella dell’angelo del focolare, e in definitiva della donna schiava, che zitta, lava e chiava.

Ma ritornando pure alla querelle circa la legittimità d’uso del termine “femminicidio” alcuni si chiedono: Perché una parola nuova per indicare qualcosa che accade da sempre? Perché finalmente si è rovesciata la prospettiva con cui guardiamo ad esso, perché oggi più di ieri ne abbiamo una consapevolezza.
C’è il rischio di proliferare di parole in –cidio? Anche quando le parole nuove sono spazzatura non ci paghiamo mica una tassa, eh.
Il termine sottolinea ulteriormente la disparità dei sessi? Questa poi è l’obiezione preferita degli antiottomarziani. Non stiamo parlando di quote rosa qui (che a me puzzano di assunzioni obbligatorie per invalidi civili) né di far ballare le donne sui tavoli mentre spogliarellisti palestrati si denudano. Stiamo parlando di un evento criminoso a sé, differente da qualsiasi altro per modalità e ideologia, che esige una sua definizione. Gliela diamo? Perché farla tanto lunga? In Inghilterra femicide esiste dal 1801. D’altronde parliamo agevolmente di matricidio, patricidio, infanticidio senza che nessuno abbia mai sollevato polemiche di sorta. Senza che nessuno abbia alzato la manina per chiedere: ché la vita di un bambino vale più di quella di un adulto?

Dicono che le rivoluzioni cominciano dal linguaggio, ma se domani sparisse magicamente questa parola, i femminicidi smetterebbero forse di essere commessi? Quale substrato cambierebbe? Se è vero che il mondo cambia con le parole, allora dovremmo interrogarci bene circa l’urgenza che questa parola l’ha generata, quell’urgenza che ce l’ha messa sulle labbra, che ce la sta facendo masticare a pranzo e a cena.
Femmincidio non significa che la vita di una donna vale più di quella di un uomo, che il silenzio di una donna vale più di quello di un uomo. Perciò, se da un punto di vista penale uccidere una donna non fa differenza né deve farne, per comprendere la genesi di tali delitti occorre analizzarli in base al paradigma “chi ha ucciso chi?”
Femminicidio è una forma estrema di terrorismo sessuale, motivato da odio, bisogno di controllo ed esercizio di potere, perpetrato da un uomo su una donna, più spesso il coniuge, il compagno, il padre.
Femminicidio significa che, se una tendenza criminosa è in aumento, sarà il caso di studiarla. E qui non voglio essere apocalittica: non siamo mica certi che sia effettivamente in aumento, eppure in assenza di una documentazione abbiamo il ragionevole dubbio che sia così.
Per studiare l’epidemiologia di un reato, occorre definirlo quel reato, una volta per tutte stabilire criteri operativi di inclusione ed esclusione. Una donna che muore in modo fortuito, nel corso di una rapina, non è vittima di femminicidio, ma se non si ha chiara questa distinzione nel conteggiare le donne vittime di violenza, finiremmo per includerle tutte quante.
Operare una distinzione tra omicidio e femminicidio  diventa così indispensabile in criminologia, ai fini di una raccolta dati adeguata, obiettivo in cui finora sono stati  profusi sforzi limitati. L’introduzione di questo termine ci permetterà di studiare con maggiore rigore e obiettività i comportamenti criminosi cui fa riferimento, individuarne i fattori di rischio, riconoscere i leitmotiv della violenza, approntare più efficaci modalità per condurre indagini investigative e, infine, prevenirli con le misure adeguate. Chi ha il coraggio di essere contrario?