La Violenza Blu

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La donna ha il viso arrossato, occhi azzurri, capelli rossi con la ricrescita, indossa una giacca da sci, dei jeans scuri, stivali. Dorme dentro al Burger King della stazione di Monaco. Sui trenacinque anni, è attraente ma sciupata. Una delle cassiere – curata e impeccabile ma brutta come uno starnuto dal dentista – viene a svegliarla. Lei borbotta qualcosa con un forte accento slavo, finge di alzarsi, ma quando la cassiera si volta si riaddormenta, e questa volta si sdraia, sperando di non essere vista da sopra ai tavoli. Dopo qualche minuto arriva un tizio con una targhetta che dice Manager. La scuote e la butta fuori senza troppe cerimonie. Io intanto deposito il vassoio, esco e mi metto a fumare appena fuori dalla linea gialla e dai cartelli che dicono che in stazione è vietato. La donna si è seduta accanto alla porta da cui è stata estromessa, e sta arrotolando una sigaretta. Arrivano due agenti della polizia ferroviaria, le dicono che deve andarsene. Lei chiede perché. Loro rispondono che deve andarsene perché sta disturbando. Lei allora si mette a gridare, e fa qualche passo verso l’esterno della stazione, arrivando sul marciapiede. I poliziotti dicono che non è abbastanza, e che deve andare via. Lei allora urla di nuovo, e si siede a terra a gambe incrociate. Un uomo si avvicina ai poliziotti, come se la donna non esitesse, e chiede un’indicazione. Gliela danno. Ringrazia. Poi uno dei poliziotti solleva di peso la disturbatrice, e l’altro le fa una multa. Infine la portano a braccia al semaforo, e le dicono di attraversare. Lei lo fa, camminando all’indietro, continuando a urlare. Una famiglia di tre ex-turchi osserva la scena. Il figlio, sui vent’anni, ride. La madre non dice nulla. Il padre ha uno sguardo duro, sporco, integrato, cattivo.
La donna scompare verso la Schillerstraße, la via delle puttane, come l’ho sentita chiamare da chi dorme in letti comodi e da Burger King non ci entra nemmeno per mangiare. La via delle puttane, dove i poliziotti di sicuro non mettono piede, almeno non finché non si levano di dosso quelle ridicole uniformi che li fanno sembrare tutti uguali, e dalla cintura quei vicecazzi di cuoio che ci tengono appesi, e che chiamano sfollagente.
Tutto questo ha finito di succedere venti minuti prima che mi sedessi in treno e mi mettessi a scrivere. Quindi non chiedetemi la morale, non la so.

Quello che so è che la violenza blu dell’uniforme ha sempre la faccia rilassata. E che sono felice di non essere un poliziotto.