Tostapane – Wish – Secondo round

 

Il bacio - Otto MunchL’avevo conosciuta ad una festa, al compleanno di Andrea. Cioè, non era il compleanno. Era la “mezzanotte”, la sera prima. Quella stupida usanza che da un po’ di anni si è affermata, di aspettare la mezzanotte del giorno del compleanno insieme con il festeggiato. Capolavoro del consumismo, così si festeggia doppio… Mah. Mai capite, queste cose. Comunque, Andrea è un amico e se lui vuole far così, chi sono io per impedirglielo.
“Vieni, voglio presentarti Michela”
Appena arrivato, Andrea mi aveva portato da questa ragazza. Non altissima, bionda, capelli corti ma non alla maschietta, magra. Di spalle sembrava normale, ma poi si è voltata. Non aveva due occhi, ma due fanali. Due occhi di un colore pazzesco, sembrava di vedere il mare, ci si poteva perdere dentro. Mai creduto ai colpi di fulmine. Prima di Michela, dico. Improvvisamente la stanza mi era sembrata vuota. Era come se fossimo soli. E sembrava che per lei fosse più o meno la stessa cosa. Ci siamo messi a parlare, abbiamo parlato di tutto e di niente. Non avevamo praticamente niente in comune. Idee politiche opposte, io pigro lei ipersportiva, io carnivoro lei vegetariana, io viaggiatore lei stanziale, l’unica cosa che ci accomunava era la lettura, ma lei leggeva la sera dopo cena mentre io guardavo la tv. Ma nonostante questo la tensione si tagliava col coltello, c’era un magnetismo quasi animalesco tra di noi. Dopo la festa le ho offerto di accompagnarla a casa, lei ha accettato, e siamo rimasti a parlare in auto sino alla mattina. Le ho proposto di fare colazione, abbiamo preso un cappuccino e un cornetto. Lei mi ha detto che di solito faceva colazione con pane tostato e marmellata, ma che quella mattina avrebbe fatto un’eccezione. L’ho riaccompagnata a casa. Sono andato al lavoro in trance, avevo solo in testa di chiamarla, ho aspettato e quando ho ritenuto fosse un’ora decente ho preso il cellulare in mano. Ha squillato prima che potessi andare nella rubrica. Era lei. E ci siamo sentiti un bel po’ di volte nel corso della giornata. Ogni volta che sentivo la sua voce mi caricavo di adrenalina, dimenticavo la stanchezza. In una delle mille telefonate le ho proposto di uscire. Prima di andarla a prendere mi sono fermato a comprare un tostapane. Ero completamente sfatto, 36 ore che non dormivo, ma appena sono arrivato sotto casa, lei è apparsa e di nuovo si è compiuto il miracolo, la stanchezza si è dissolta. Le ho dato il mio regalo, le ho detto che così quando faceva colazione poteva pensare a me. Lei ha riso, e io ho realizzato in quel momento che sarei stato disponibile a fare qualunque cosa, pur di sentire quella risata. L’ho portata in un ristorante vegetariano, non ricordo cosa abbiamo mangiato, nè di cosa abbiamo parlato. Se è per questo non ricordavo neanche di cosa avessimo parlato per tutta la notte precedente, né nelle telefonate della giornata. E lei ha confessato ridendo di non ricordare neanche lei. Le piacevo, almeno quanto lei piaceva a me. Riaccompagnandola a casa, l’ho accompagnata al portone e l’ho abbracciata. Ci siamo baciati. Me lo ricordo ancora quel bacio, lungo e appassionato, come se non ci fosse un domani.
Ci siamo frequentati con assiduità, lei non aveva molto spazio di manovra, perché studiava ancora, e i suoi non erano esattamente genitori moderni, ma ogni momento libero lo passavamo insieme, sino a che una sera ha detto a casa che sarebbe andata a dormire da un’amica, e siamo andati alla casa del mare dei miei. Faceva un freddo becco, ed era umido come non mai. Ma finalmente abbiamo fatto l’amore. La mattina dopo le ho portato le sue fette di pane tostate con la marmellata, e un bigliettino con quella bellissima frase di Calvino “Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai si era potuta riconoscere così”. Lei ha letto il bigliettino, mi ha guardato dritto negli occhi, e io mi ci sono perso dentro come sempre mi accade, e mi ha detto solo “Tu”. E mi ha baciato.
Così è cominciata, e poi il resto è stato un crescendo, sin quando abbiamo deciso di andare a vivere insieme, quattro anni fa. Lei si era laureata, ha trovato un lavoro, e insieme riuscivamo quasi ad arrivare a duemila euro al mese. Io lavoravo come impiegato in un’azienda, mi avevano convertito il contratto di apprendista in contratto a tempo indeterminato, avevo anche qualche discreta possibilità di carriera. Lei aveva un contratto a progetto, ma si sperava. La vita insieme era meravigliosa, mi alzavo la mattina, le tostavo il pane (lei si era portata dietro il tostapane che le avevo regalato il primo giorno), ci spalmavo la marmellata, preparavo il caffè, e le portavo la colazione a letto. Poi andavamo a lavorare. La sera ci ritrovavamo a casa, lei mi faceva trovare un piccolo aperitivo, poi cenavamo, poi un po’ di tv. E poi facevamo l’amore. Tanto, non ci bastavamo mai. Era un continuo strofinarsi, cercarsi, strusciarsi, guardarsi. Quando eravamo con altre persone, spesso si ricreava quella magia della prima sera, ci sembrava di essere soli, di comunicare su un altro piano, di riuscire a passarci dei messaggi senza parlare. Così è andata avanti, per due anni buoni, finché Michela non ha perso il lavoro. Dopo quattro rinnovi, a vario titolo, alla fine ha vinto la crisi, e l’hanno buttata fuori. Ha cominciato a inviare curricula a destra e a manca, a fare colloqui come una forsennata, ma niente. Nada. Rien a fair. Dopo qualche mese ha iniziato a deprimersi. Ha smesso di mandare curricula. Ha smesso di uscire. Stava tutto il giorno dentro casa. Si spegneva pian piano. Leggeva, navigava su Internet, guardava la tv. Lei, che la tv la detestava, era quasi diventata una maniaca. Quel feeling che ci aveva sempre accompagnato, quella sensazione di esclusività, quel sentire di esser soli in una stanza piena, erano andati. Persi. Sembrava si fosse rotto qualcosa, sembrava che non riuscissimo a recuperare. Facevamo l’amore, ma molto meno di prima. E sembrava quasi fosse un dovere, quasi un modo per cercare di ritrovarsi, ma neanche quello funzionava. Dopo un anno eravamo praticamente due estranei. Tiravamo la cinghia, la tiravamo forte. Avevamo venduto l’auto, e mi facevo due ore di viaggio coi mezzi per andare al lavoro, a volte anche tre, tra andata e ritorno. Tutto il superfluo era stato tagliato, e anche parte del necessario. Non potevamo comprare libri, era la cosa della quale soffrivamo di più. Poi l’ho vista rifiorire. Sembrava avesse ritrovato la voglia di lottare, aveva ripreso a inviare curricula, anche se con scarsissimi risultati, e aveva ripreso a fare colloqui. E poi il casino. Un giorno mi arriva un SMS suo, che dice “lo sai che domenica non sono sola. quante volte te lo devo dire? non fare il bambino”. Non ho detto niente per due giorni, poi non ce l’ho fatta più. Abbiamo litigato, di brutto. Le ho detto di tutto e di più, lei mi ha accusato di non comprenderla, di non immaginare neanche come si sentisse lei, di non aver alzato un dito per aiutarla, di non esserle stato accanto. Se n’è andata, è tornata dai suoi. E io sono qui, ora, in cucina. Ed è appena suonato il citofono. E’ lei. Sono sicuro che è venuta a chiedermi scusa, sono sicuro che si è resa conto dello sbaglio enorme che sta facendo, sono sicuro che torneremo insieme, che tutto si aggiusterà, sono sicuro che la amo, la amo con tutto me stesso. Apro la porta, le sorrido, lei mi guarda gelida e mi dice “Sono venuta a prendere il tostapane”.