Pirateria – Download a car – Intesomale

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Una formica si crede libera? Beh, se fosse in grado di maturare un simile concetto e un simile pensiero, probabilmente lo farebbe, ma poi arriverebbe uno studioso di teoria dei sistemi, accompagnato da un entomologo, da qualche giornalista e da uno stagista con panini e caffè, e si metterebbe a discutere le caratteristiche meccaniche e costrittitve del suo comportamento nel formicaio. Noi ci crediamo liberi, forse lo siamo, e forse no. Io tendo a credere che non esista distinzione fra natura e cultura, e che anzi ciò che chiamiamo cultura faccia parte della nostra falsariga evolutiva, e sia espressione della natura stessa, come ogni manifestazione esistente in assenza di dei e simili favole d’anima e di magia.

Così i nostri comportamenti e le evoluzioni storiche della nostra struttura sociale ed economica non sono altro che un’espressione dell’adattamento di una somma di individui alle circostanze in cui essi si trovano a vivere: siamo diventati tendenzialmente monogami perché i cuccioli della nostra specie ci mettono molti anni a diventare indipendenti, siamo diventati bipedi perché col cambiamento dell’ecosistema era necessario, vivendo a terra, alzarsi per guardare più lontano. Il nostro mercato e la nostra società ha preso forme definite dalla demografia dei secoli e dei millenni del nostro sviluppo.

Quella che si chiama pirateria digitale è una manifestazione di progresso – o meglio, di mutazione – delle condizioni di convivenza, commercio e comunicazione delle informazioni. Siamo troppi. Siamo più di sette miliardi di individui su questo pianeta, ognuno produce più di quanto sia in grado di vendere, e la distribuzione dei contenuti è accelerata dalla tecnologia che, a giro di cerchio, è la stessa tecnologia che ci ha reso più prolifici e longevi (a livello di specie). Centocinquant’anni fa, ognuno di noi possedeva decine di oggetti, e su venti milioni di italiani quelli che producevano contenuti di interesse artistico o scientifico erano decine. Oggi io possiedo centinaia di item anche solo limitandomi alla categoria “abbigliamento”, e tutti produciamo contenuti e cerchiamo di scambiarceli con chi abbiamo attorno. L’impatto economico dell’industria culturale riguarda la fase di presentazione, di relazione pubblica, di produzione fisica e di promozione dell’immagine, e ha pochissimo a che vedere con la vendita del prodotto dell’intelletto. Io stesso, come autore, sarò ben felice se la gente si scambierà copie pirata di un libro che ho scritto: mi importa essere conosciuto, per tentare di ottenere una posizione di non-autore nell’industria culturale. L’apice della carriera di un romanziere è ormai fare l’editor, l’apice della carriera di un musicista, dopo anni da performer che coi dischi non si paga neppure il dentista, è approdare in televisione o su altre forme di distribuzione autoalimentata.

Il peso è sul marketing, non più sul contenuto. Sì, da un certo punto di vista è un po’ triste: in questo minestrone di contenuti che viaggiano gratuitamente in ogni direzione, alcuni legalmente, altri in maniera clandestina, diventa sempre più difficile distinguere arte e scienza dalle egutturazioni farlocche di una schiera di incompetenti. Ma è il tempo in cui viviamo. Un tempo in cui l’acquisizione dei contenuti non è più il nodo centrale del commercio. Lo è la promozione, che pesa sulle spalle ancora solide di giganti della finanza e dell’economia di produzione di beni non intellettuali.

Su internet girava una battuta. Avete presente la frase: “you wouldn’t steal a car” nelle pubblicità anti-pirateria? Ecco, un tizio ci aveva scritto sotto: “fuck you, I would if I could”. Bene. Proprio perché non si può scaricare una macchina da internet, la pubblicità delle macchine che compriamo alleggerisce e sostenta la libera (o ancora clandestinamente libera) circolazione dei prodotti dell’intelletto.

Non è un bene, non è un male, è solo il modo in cui stanno le cose. Il posto in cui ci tocca vivere, con pochissime possibilità di cambiarlo.