Pulp! – Quando è troppo è troppo

Sono qui a far nottata al lavoro, e mi sono ricordato che tempo fa ho scritto un racconto che può andar bene per il tema settimanale. Faccio che pubblicarlo ora, ché domani (ahem, oggi) sragionerò dalla stanchezza.

Lo andai a prendere in stazione. Veniva a Roma di rado, e quelle poche volte che capitava lo vedevo con grandissimo piacere.

Paolo era un amico caro, carissimo. Uno di quegli amici con i quali non c’è bisogno di vedersi o sentirsi, perché quando ci si incontra anche dopo sei mesi si ricomincia a parlare esattamente dal punto dove ci si era interrotti, come se il tempo nel quale non ci si è visti non esista. Uno di quegli amici che quando pensi di chiamarlo e prendi il cellulare, il cellulare squilla e vedi il suo nome sul display. Il mio migliore amico? Forse. Ma non è importante il posto in classifica. E’ importante quel che si condivide.
Il treno era in ritardo, trovai un posto in divieto di sosta e mi misi a pasticciare con l’iPhone sui vari blog e social che seguivo. C’era un post che parlava di un tentato suicidio, stavo lì lì per rispondere quando sentii bussare al finestrino. Era Paolo. Scesi dalla macchina e ci abbracciammo con un sorriso. Non c’era bisogno di usare tante parole, la gioia reciproca era palese. Salimmo in macchina e gli dissi che avevo prenotato in una vecchia trattoria proprio da quelle parti, vicino a via Merulana, che mi avevano raccomandato per la cucina romana. Si chiamava “Vecchia Roma”
Parlammo del più e del meno, mi raccontò della moglie, di quanto gli stava stretta la vita nella cittadina dove si era trasferito, dei progetti di tornare nella sua terra natìa. Mi chiese di me, della famiglia, del lavoro.
Come sempre accadeva quando a bordo c’era lui, non appena gli dissi che eravamo quasi arrivati si materializzò un parcheggio. Aveva questa dote, di “attirare” parcheggi liberi, sia che fosse direttamente alla guida o un semplice passeggero, con lui in auto il parcheggio non costituiva mai un problema.
Con una piccola e piacevole passeggiata arrivammo alla trattoria, che scoprii essere situata nel seminterrato di un palazzo.
La sala era molto grande e non ancora completamente piena, ma già c’erano dei capannelli di persone fuori. Previdentemente avevo prenotato, e fummo immediatamente accompagnati ad un tavolo al centro della sala. Apprezzammo l’idea, semplice e geniale, di riportare il menu sulle tovagliette di carta di ciascun commensale. Il menu presentava tutti i piatti classici della cucina romana, ma un riquadro al centro del menu, in grassetto, recitava “Specialità della casa: bucatini all’amatriciana”. Non c’era alternativa, DOVEVAMO prendere quelli.
Ci guardammo intorno, c’erano molti turisti, ma anche romani alla ricerca di una trattoria come non ce ne sono più. Un ragazzo magrebino, in un perfetto romanesco, prese la comanda. Continuammo a chiacchierare piacevolmente, Paolo mi raccontò di una vicenda legata ad un’udienza presso un Giudice di Pace che, incredibile dictu, si era risolta in suo favore e non in favore dell’Amministrazione del Comune contro la quale era stata intentata. Chiacchieravamo e ridevamo parecchio, contenti di trascorrere del tempo insieme, del tempo tutto per noi, sembrava di essere tornati indietro nel tempo, quando Paolo viveva a Roma, e settimanalmente, o al massimo ogni due settimane ci vedevamo per cena a casa sua. Anche in queste cene spesso l’amatriciana era la protagonista indiscussa, era diventata una specie di sfida tra di noi la ricerca e l’acquisto del miglior guanciale, per usarlo nella preparazione di un piatto che piaceva moltissimo a entrambi.
Il ragazzo magrebino ci portò la focaccia che avevamo chiesto a mo’ di antipasto, e insieme alla focaccia arrivò un gruppo di ragazzi che apparivano parecchio chiassosi. Occuparono due tavoli lunghi, alle mie spalle, di fronte a Paolo. Un tavolo ad un lato della sala, l’altro di fronte. Sembravano reduci da un aperitivo nel quale avevano già, evidentemente, abbondato in alcool. Parlavano tutti a voce molto alta, e dopo aver preso posto, iniziarono a lanciarsi battute da un tavolo all’altro. Ovviamente urlando. Quello che sembrava il “capo” era particolarmente attivo. Al punto che, non contento di urlare, si alzava in piedi per dare alle urla maggiore enfasi. Indossava una maglietta a maniche corte, nonostante il freddo esterno, che lasciava intravvedere due grossi tatuaggi su entrambe le braccia. Mi voltai un paio di volte, in corrispondenza di urla particolarmente forti, e cercai di incrociare lo sguardo di qualcuno di quelli che nella mia testa erano già transitati nella categoria “giovinastri”. Niente.
Cercammo di far finta di nulla e chiacchierare, ma quando Paolo parlava mi arrivava a stento una parola su tre, nonostante Paolo si sforzasse di parlare a voce molto, molto alta.
Il ragazzo magrebino ci portò le amatriciane.
Paolo osservò che probabilmente senza il tatuato le cose sarebbero andate meglio.
Io dissi che ero d’accordo.
Non ci fu bisogno d’altro.
Ci alzammo simultaneamente, estraendo le pistole. Tra le tante cose che avevamo in comune, una era la passione per le calibro 9. Lui la Beretta, io la Glock. Sparai un colpo in aria, la stanza ammutolì. Ci avvicinammo al tatuato. Un altro ragazzo si alzò, tentando di fermarmi. Paolo gli sparò un colpo nella gamba. Mentre si accasciava a terra puntai la Glock e premetti il grilletto. L’occhio del tatuato esplose e il sangue schizzò sul tavolo dove era seduto sino a poco prima. Cadde nello spazio tra i due tavoli e ristette immobile.
Ci risedemmo al nostro tavolo.
L’amatriciana era buonissima, ce la gustammo nel religioso silenzio che era calato sulla sala.