Pillole di giustizia: lezioni di nuoto in burkini
“Cose che accadono… in Germania!” Strano, a leggerlo si penserebbe piuttosto alla Francia “Patrie de la laicité“. Invece no: proprio di Germania si tratta. Ad inizio settembre il Bundesverwaltugsgericht (Tribunale Amministrativo Federale, una sorta di nostro Consiglio di Stato) di Lipsia ha preso un’importante decisione in materia di… lezioni di nuoto!
Il caso potrebbe sembrare bizzarro, ma forse diamo troppe cose per scontate: una studentessa di Francoforte di origine marocchina ha presentato un ricorso (in effetti non è chiarissimo se siano stati i genitori…) per essere esentata dal partecipare ai corsi di nuoto scolastici (corsi che rientrano nei programmi di educazione fisica, quindi influiscono sui voti) lamentando che questa partecipazione violasse la sua libertà religiosa.
In realtà il problema non è nuovissimo in Germania: nel 2005 una sentenza del Tribunale Amminstrativo di Duesseldorf aveva imposto alle studentesse mussulmane di prender parte alle lezioni di nuoto (ripresa poi nel 2006, 2008…).
Le argomentazioni a sostegno del ricorso erano svariate: in primo luogo, si reputava contrario alla morale islamica indossare abiti succinti come i costumi da bagno (e non sarebbe difficile trovare ragionevoli paralleli con il vituperato concetto di “buon costume” che tanti danni, anche giudiziari, ha fatto anche in Italia); in secondo luogo, si lamentava il rischio di contatti impropri con gli altri studenti, specialmente maschi e, infine, il terribile (scusate) pericolo di intravedere fra tutti quei corpi poco coperti più di quanto la morale non vorrebbe.
Ovviamente, prima della sentenza non sono mancati accalorati suggerimenti al Tribunale Amministrativo Federale sulle ipotetiche gravissime conseguenze di una scelta o dell’altra. Ovviamente, non sono mancati i conservatori da operetta (che abbondano anche qui da noi), che già paventavano il rischio di “due distinte e parallele realtà per mussulmani e non”.
Il Bundesverwaltungsgericht ha trovato invece un buon compromesso fra la libertà religiosa e la pretesa/onere educativo dello Stato: rigettando (almeno parzialmente) il ricorso, ha imposto alla studentessa di partecipare alle lezioni di nuoto, in “burkini“. Ovvero, le studentesse mussulmane potranno partecipare indossando un costume che copre l’intero corpo, inclusa la testa, lasciando scoperte solo mani e piedi.
Posso fare una battuta? Immagino già i feticisti…
L’argomentazione del Tribunale rispetto le altre due argomentazioni è semplice e lineare: “Il diritto fondamentale alla libertà religiosa non si può estendere al punto di tutelare la pretesa, in ambito scolastico, di non doversi confrontare con le abitudini di comporamento di terzi (in particolare quelle relative all’abbigliamento), le quali anche al di fuori della scuola in molti luoghi o molti periodi dell’anno sono quotidianamente diffuse” [prima che qualcuno si lamenti, è una mia libera traduzione]. Insomma, non si può pretendere che la scuola diventi una “bolla di vetro” totalmente distaccata dalla realtà sociale.
Per l’ulteriore problema di sfioramente indesiderati, tanto il Tribunale quanto professori interpellati dal settimanale Der Spiegel sostengono che in realtà il problema non si pone: basta un minimo di attenzione nell’organizzare la lezione. Secondo lo stesso Tribunale, con tali accorgimenti il pericolo “è ridotto ad una probabilità minima“. E l’onore è salvo.
Decisamente pragmatici.
Il dato che, a mio avviso, merita più attenzione è in realtà il fatto che il Bundesverwaltungsgericht riconosce questa “burkini normalità” (definizione sempre dello Spiegel), ritenendola assolutamente ammissibile all’interno del contesto socio-giuridico della Germania: insomma, è indubbiamente accettabile che nelle piscine e spiagge tedesche i mussulmani possano nuotare con un burkini, anche quando parte di un programma pubblico come quello scolastico. Di fatti, il molte scuole era già prassi.
Al contrario, immaginerei già lo scandalo qui in Italia.
Ora, il paragone seguente travalica un pò il tema, ma mi pare comunque interessante: la squadra femminile di calcio dell’Iran è stata bandita ripetutamente dalle competizioni (Giochi Olimpici, competizioni FIFA) a causa dell’hijab. Questo perché le regole FIFA vietano i simboli religiosi (qualcuno ricorda questa foto?). Ebbene, trovo simili regole assurde: se parliamo di sport, non vedo perché gli abiti indossati debbano fare qualche differenza. E, ancor più grave, non vedo perché dobbiamo pretendere che lo sport sia un mondo avulso dalle realtà sociali che ingloba.
Ancor più assurdo trovo, infine, che mentre si persiste con un simile divieto, si accetti di organizzare un Mondiale in Qatar, paese notoriamente molto liberale verso le donne. Oppure, perché non si riconosce che per le calciatrici è molto meglio poter giocare, sebbene col velo, piuttosto che non giocare affatto… Ma vogliamo mettere i grandi risultati della nazionale femminile dell’Arabia Saudita?
Ecco, trovo che anche alla luce di questa rinnovata sentenza tedesca dovremmo profondamente riflettere sui rapporti fra Stato laico (per come lo intendiamo) e libertà religiosa. Che non implica un’apertura indiscriminata a tutti ed a tutte le pratiche religiose, ivi compresa la shari’a, ma l’accettazione e la tolleranza di tutte quelle pratiche che, invece, non ledono i diritti fondamentali e potrebbero essere un importante strumento di interazione sociale (Zagrebelsky docet).
Burqini per il mare ??? questa non la sapevo .. bel post 😉
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La traduzione è perfetta, complimenti.
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E’ un pò libera sull’incipit. Comunque grazie
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Tradurre dal tedesco richiede una notevole capacità di interpretazione.
E sei stato preciso.
Il compito del traduttore è rendere il senso, non per forza con le medesime parole (questo nella mia esperienza).
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Qui mi potrei scatenare, visto che l’incontro tra culture sarebbe (stato) il mio ambito di studi. Però in anni trascorsi a spiegare cosa ho studiato mi sono un po’ stancata. Diciamo che il mio sogno sarebbe stato arrivare a rendere diffuso, se non comune, un approccio simile.
Quest’estate, al fiume, una compagnia di ragazzi neri contava fra le sue file ragazze in costume, vestite e addirittura velate. Tutte nuotavano e scherzavano, e nessuno dei probabili elettori della Lega lì intorno (viste le zone) ci trovava niente di strano.
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Se ti va di darci qualche informazione in più sull’interculturalità, mi farebbe molto piacere.
Magari scopro qualche altro aspetto giuridico da approdondire….
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Di aspetti giuridici da approfondire ce ne sarebbero a iosa. Ricordo la storia di un aspirante mediatore culturale indiano, il quale raccontava che in India fra nome e cognome si frappone una parola che indica la religione. L’onnipresente Singh non è in realtà un cognome, ma la parola che indica che uno è sikh. Al momento del rilascio del passaporto e del permesso di soggiorno, però, la cosa viene interpretata come doppio cognome e, almeno all’epoca, non si poteva indicare un doppio cognome. Risultato: si sceglieva il primo, che però non era quello che lui definì “il nome degli antenati”, bensì una mera indicazione religiosa.
In Italia l’interculturalità è roba da pionieri un po’ scervellati 😀
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Già questo è un paragone molto interessante, personalmente mi ricorda il caso del Ruanda dove le “etnie” (o, meglio, categorie sociali) di hutu e tutsi erano in realtà molto fluide sino all’arrivo dei colonizzatori belgi che, guarda caso, cominciarono ad annotarle nelle carte d’identità….
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Sul Rwanda se vuoi ti mando mio fratello, ci ha fatto la tesi di laurea e ci sta facendo quella del master (non compilativa, si smazza decine di interviste, però non è un giurista ma un educatore).
La costruzione dell’identità etnica è un campo minato, i colonizzatori ci hanno fondato i loro imperi, pensiamo agli indiani portati in Africa dagli inglesi perché “superiori” ai neri ma trattati da inferiori in India… (scrivo col cellulare, se ci sono strafalcioni me ne scuso)
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Mah, direi che almeno per il momento col Ruanda ho già dato (scusa l’autocitazione: https://redpoz.wordpress.com/?s=dispaccio ).
Anche il caso degli indiani portati dagli inglesi in Africa è molto interessante (ne parla anche Moravia nel reportage dei suoi viaggi nel continente, sul quale conto di scrivere a breve): effettivamente con la loro immigrazione si è creato un Africa una sorta di sistema etnico-castale, con parallela divisione dei ruoli anche economici (indiani commercianti, africani agricoltori e pastori). Con la decolonizzazione, poi, non di rado i nuovi Stati africani hanno “spinto” gli indiani ad andarsene (l’esempio certamente più famoso è quello di Idi Amin Dada in Uganda, ripreso anche in “Mississippi Masala”), cosa che ha anche causato qualche danno all’economia….
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Non è molto che ti leggo 🙂
Comunque gli esempi sono tanti, e interessanti. Un’amica, nata a Sarajevo ma cresciuta in Italia (è arrivata una ventina d’anni fa), raccontava come, tornata in Bosnia per fare i documenti bosniaci dopo la fine di quel casino infame che è stata la guerra e tutto quel che è venuto dopo, si sia trovata in difficoltà perchè la legge la obbligava a indicare sul documento quale fosse il gruppo di appartenenza: serbo, croato o musulmano. Inutile protestare “Ma io sono bosniaca!”, ha dovuto indicare di essere croata perchè la famiglia è cattolica.
Oppure, gli arabi israeliani che ho conosciuto in università raccontavano che anche loro, oltre a non poter avere accesso alle stesse scuole degli ebrei, devono indicare la religione sui documenti. Uno di questi, cristiano, me ne ha detto il motivo: gli arabi cristiani sono trattati con una specie di occhio di riguardo. Il fine di questo trattamento speciale immaginatelo voi.
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trovo curioso un aspetto: la modalità è di “inclusione di nuovi modelli”, e non di “rimozione del problema alla radice”, eppure la sensazione è che la faccenda sia gestibilissima nella misura in cui non crea precedenti.
mi spiego: esempio crocifisso nelle aule. io sarei per la rimozione, nella misura di non inclusione di alcun simbolo religioso. la critica che più spesso viene fatta all’inclusione di altri simboli è “…e allora dovremmo metterli tutti”. ecco, la sensazione è che in questo caso non scatti la critica: c’è un problema? il problema riguarda X? ok, risolviamo il problema rispetto a X. la soluzione è di tipo inclusivo? bene, si fa. senza pensare che si sia creato un precedente per Y, Z, etc.
tu forse mi risponderai: certo, la differenza è che da noi le sentenze fanno legge, lì no. può essere?
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Né in Germania, né in Italia le sentenze “fanno legge”. Quel che possiamo dire per entrambi i sistemi giuridici è che esse “fanno stato” per la causa in oggetto ed al massimo possono fungere da riferimento per le decisioni future. Semmai, in Italia, le sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione offrono un’ “interpretazione autentica” su punti di diritto particolarmente complessi.
Personalmente trovo la soluzione “inclusiva” migliore di quella della “rimozione” radicale: in fondo lo Stato laico deve essere inclusivo. E rimuovere i problemi non significa risolverli.
Stato inclusivo, dico, nella misura in cui le nuove pratiche non contrastino con i principi constituzionali e possano essere integrate in esso.
Certo, si crea un precente, ma a me questo pare un dato solamente positivo. Ed eventuali conflitti che dovessero sorgere in seguito potranno essere affrontati con le medesime soluzioni giuridiche.
Può essere interessante notare in proposito che in Inghilterra per le questioni di famiglia sono stati creati dei Tribunali di primo grado fondati sul diritto ebraico od islamico: in pratica giudicano sulla base della shari’a, sebbene dopo sono sottoposti all’appello e controllo delle corti statali che ovviamente assicurano il rispetto dei principi generali dell’ordinamento inglese, annullando sentenze che vi contrastino.
Sulla questione del crocifisso, sono favorevole anche io alla rimozione, ma per una ragione diversa ed ulteriore: non si tratta di prassi o comportamenti, bensì dell’esposizione di un simbolo prettamente religioso in uno spazio pubblico che dovrebbe essere neutrale e laico.
Evidentemente, inoltre, in questo caso la soluzione inclusiva non potrebbe funzionare: quali simboli mettiamo? Quelli più rappresentati in Italia? O delle religioni più diffuse fra gli studenti? E quanti?
Per converso, nel caso in Germania una soluzione di rimozione alla radice non era possibile: come si sarebbe fatto, forse creando “classi ghetto”? O esentando le studentesse mussulmane da queste lezioni?
Insomma, porrei una sorta di “test” (alle Corti piace sempre molto elaborare queste formulette…) in più fasi:
1) si tratta di “comportamenti” od altro? Se si tratta di esposizione di simboli, può applicarsi un comune principio di laicità dello spazio pubblico, altrimenti occorre un nuovo step;
2) il comportamento è tollerabile all’interno dell’ordinamento? (è evidente che prassi come la pena di morte, ad esempio, sono inammissibili anche se giustificate da ragioni religiose- qui possiamo rimandare alla “scala” di Delmas-Marty di cui ho già parlato)
3) che valore ha per l’ordinamento il diritto esistente che si reputa in conflitto con tale nuovo comportamento? Ovvero, nel bilanciamento fra i beni giuridici in conflitto, quale di essi dovrà essere sacrificato e quale ritenuto prevalente? (diritto/dovere all’educazione o libertà religiosa)
4) è possibile trovare una soluzione (una modalità, una prassi) che includa questi nuovi comportamenti nell’ordinamento? E’ possibile renderlo compatibile con l’altro bene giuridico ed in che misura?
5) infine, il modo prospettato per includere questi comportamenti è applicabile anche ad altri in futuro o rischia di creare situazioni incompatibili? (se non lo è, il test dovrà ripartire)
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non sono convinto del primo punto. hai ragione che avrei dovuto mettere “fanno legge” tra virgolette, ma nella prassi le sentenze non solo forniscono interpretazioni ma spesso colmano vuoti legislativi creando dei precedenti a cui fare riferimento. ovviamente mettersi a discutere di questo con un avvocato (e non uno qualunque… ;)) è da suicidio, con le mie in-competenze, i pochi esempi che posso portare però suffragano (almeno a livello pragmatico) la mia idea, almeno nelle cause civili: a spaziare dalle banali sentenze sugli autovelox fino alle sentenze (più delicate) sulla diagnosi preimpianto (vd legge 40).
non sono convinto fino in fondo neanche che la soluzione inclusiva sia migliore di quella esclusiva: l’assenza di regole presuppone intrinsecamente la validità della proposta fino a smentita. nel caso del crocifisso, per altro, arrivi anche tu allo stesso punto: e allora cosa mettiamo?
sposo invece totalmente la conclusione: credo si confaccia ad un approccio legislativo decisamente maturo.
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Naturalmente ci sono sentenze e sentenze… se parliamo di Corti Costituzionali o Corti Supreme, ovviamente hanno un impatto molto maggiore nel sistema giuridico: danno un’interpretazione che diviene quasi vincolante. Ma se pensiamo ai comuni tribunali, questo non avviene.
Certo, qualsiasi tribunale potrebbe fare una sentenza “rivoluzionaria”, ma poi non è detto che la stessa sia ripresa dagli altri e si imponga come interpretazione corrente o che sia accettata anche dalle corti superiori (Cassazione in particolare).
L’alternativa alla soluzione inclusiva (il modello francese) rischia di essere -a mio avviso- troppo dogmatica ed un pò sterile.
Certo, come detto, non possiamo pensare che l’inclusione sia la sola risposta a disposizione: dipende da caso a caso, e proprio in questo l’apprezzamento delle corti si rivela essenziale.
Il crocifisso è un caso particolare, direi, perché in esso il “comportamento” (=esposizione del simbolo) è tenuto dallo Stato, quindi imposto a tutti: proprio in casi simili, direi che il principio di laicità dovrebbe prevalere. Ma questo riguarda lo Stato: è lo Stato che si deve astenere da questo facere. Se invece pensiamo a comportamenti dei cittadini, sono ancora dell’avviso che l’inclusione sia la risposta migliore.
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