Fine vita – La suocera – Racconto di Wish

Quando è stato il mio turno di scegliere il tema, ho scelto “Fine vita”, perché come si evince dal post del duello, è un tema che mi frulla per la testa da un po’. A tal punto, che avevo anche iniziato a scrivere un racconto. L’ho finito in questi giorni, eccolo qui.

Mentre usciva in punta di piedi, Daniela chiuse dietro di sé la porta della stanza di Matteo. Suo figlio aveva quattro anni, ma non rinunciava alla lettura della favola per addormentarsi, neanche per il riposino pomeridiano. Andò in cucina e si preparò un caffè. Da quando avevano la macchinetta espresso il consumo di caffè era leggermente aumentato, ma a Daniela il caffè piaceva, e si concedeva il piacere senza remore, visto il periodo che stava attraversando. Si sedette al tavolo della cucina e guardò fuori dalla finestra. Si vedeva il mare, e il caffè davanti al mare rappresentava la sublimazione di due piaceri in uno. Si abbandonò al sapore del caffè e ai colori del mare. Cercò di scacciar via il senso di stanchezza e di solitudine che da mesi, oramai, non l’abbandonava. Finì il caffè e guardò l’ora. Doveva andare. Si diresse verso la stanza in fondo ed entrò; si guardò intorno, per verificare che fosse tutto in ordine. Le serrande erano semichiuse, il condizionatore ronfava piano, la temperatura era impostata su un confortevole 24, l’aria era asciutta e fresca. Daniela guardò verso il letto. La sagoma sotto le coperte respirava lentamente ma regolarmente. Gabriella giaceva distesa sulla schiena, la bocca semiaperta, a tratti si sentiva un lieve russare. Il sondino nasogastrico, assicurato dietro l’orecchio, era collegato alla pompa, a sua volta collegata ad un sacchetto pieno di alimento liquido. Gabriella era la suocera di Daniela, e circa un anno prima aveva avuto un ictus, che l’aveva lasciata gravemente menomata nelle funzioni cerebrali. Nei fatti non era più riuscita a esprimersi, né con la parola, né scrivendo. Era apparso chiaro sin dall’inizio che nei centri cognitivi ci fosse qualcosa di scombinato, di guasto, come se si fosse rotto qualcosa. Stava lì, semi inebetita, perennemente seduta in poltrona. Riusciva a muoversi autonomamente, si lasciava condurre, se presa con dolcezza. Ma per il resto era totalmente dipendente, doveva essere imboccata, lavata, cambiata. Vivevano tutti sotto lo stesso tetto. Daniela era cosciente di non rendere un buon servizio Marco, ancora così piccolo, ma non c’era altra soluzione, o meglio, la soluzione dell’istituto non era praticabile. Luciano non avrebbe mai acconsentito, ma anche a Daniela non sarebbe piaciuta, nonostante i rapporti tra suocera e nuora non fossero esattamente idilliaci, prima dell’incidente.
Daniela era una persona sottile, sembrava sempre che volesse scomparire, era la discrezione fatta persona. Mai una parola di troppo, mai un’insistenza, sempre la volontà di andare incontro alle persone, di metterle a proprio agio, di farle sentire tranquille. La suocera era l’opposto. Chiassosa, invadente, pettegola, si vantava di dire sempre quello che pensava nel momento in cui lo pensava. Tanto Daniela era minimalista, nel vestiario, nel trucco, nei gioielli indossati, quanto Gabriella era il suo opposto, tutto doveva essere estremamente vistoso, doveva essere notato. E così in tutto, qualunque aspetto della vita quotidiana le vedeva sempre schierate su sponde opposte. Gabriella, fanatica dell’entertainment televisivo modello De Filippi, Daniela accanita lettrice con scarsa, se non inesistente, propensione per il mezzo televisivo. Daniela appassionata d’arte, che Gabriella liquidava come “stupidaggini inutili”. Gabriella focalizzata solo sulla materialità, sulle cose che servivano per fare quattrini, Daniela interessata all’interiorità, alla spiritualità; non per niente Daniela era credente, in modo pieno e sentito. A volte critica nei confronti della Chiesa, ma con una fede forte, fortissima, che l’aiutava nei momenti duri. Daniela sospettava che Gabriella non avesse digerito che il suo unico e adorato figlio maschio si fosse innamorato perdutamente di lei, con tutte le ragazze, ben più belle, che Luciano avrebbe potuto sposare. E ancor meno aveva digerito che dopo appena quattro mesi di frequentazione lui le avesse chiesto di sposarla. Neanche a dirlo, subito dopo il matrimonio erano iniziate le frecciatine. A volte appena accennate, a volte vere e proprie stilettate nel fegato. Innanzitutto, Gabriella non poteva sopportare che Daniela non lavorasse. Luciano faceva il commercialista, aveva iniziato appena laureato a crearsi un giro proprio, e oggi aveva uno studio con un paio di lavoranti. Daniela e Luciano, dopo essersi a lungo confrontati, avevano constatato, conti alla mano, che non era indispensabile che Daniela lavorasse, e nel fondo del proprio cuore entrambi preferivano che si dedicasse alla famiglia a tempo pieno. Gabriella, invece, non poteva pensare che il figlio, il suo adorato figlio, fosse costretto a mantenere Daniela, che non contribuiva al bilancio familiare se non nella colonna “Uscite”. Gabriella aveva lavorato quarant’anni, figurarsi! Sosteneva che il lavoro era FONDAMENTALE. E grazie al lavoro, lei SAPEVA. Era depositaria del verbo. Aveva la verità svelata su tutto. Qualunque argomento, non importa quanto complesso, prevedeva che lei avesse la giusta opinione. La verità, per l’appunto. Daniela era leggermente infastidita dal fatto che il marito non vedesse, ma Luciano in perfetta buona fede non si rendeva minimamente conto delle piccole angherie, delle frecciatine che arrivavano ad ogni piè sospinto, come quando Gabriella gli raccomandava di stare a dieta, all’approssimarsi dell’estate, perché “le donne ti guardano”, ovviamente alla presenza di Daniela. Ma le cose tutto sommato procedevano, in fondo ognuno aveva casa propria, e le occasioni di incontro erano relativamente limitate.
La situazione era precipitata con l’arrivo di Marco. Lì Gabriella si era veramente scatenata, iniziando a dare il peggio di sé. Daniela aveva difficoltà ad allattare, le erano venute le ragadi e quindi era per lei difficile far attaccare il bambino, il dolore era fortissimo. E quindi, poiché il bambino prendeva meno latte, Daniela ne “produceva” meno, in un meccanismo di autoregolazione che le avevano chiaramente spiegato i medici. Gabriella sosteneva invece che lei era troppo magra, che non mangiava, e quindi “non faceva il latte”: Daniela lo aveva sentito con le sue orecchie, rimanendo allibita, mentre parlava con un’amica nell’altra stanza. E il fatto che Marco, dopo lo svezzamento, mangiasse poco, la faceva diventare pazza. E anche lì, ovviamente era colpa di Daniela che non mangiava durante la gravidanza. Insomma, una sequela di luoghi comuni inframmezzati da credenze popolari, il tutto totalmente privo di senso e di alcun fondamento; un po’ come “non c’è più la mezza stagione”, per capirsi. Ma quel che realmente contava, quel che sembrava il principale obiettivo di Gabriella, era trovare un pretesto, uno qualunque, per poter dare addosso a Daniela e per attribuirle colpe inesistenti, meglio se relative alla gestione di Marco. Marco era indubbiamente un bambino delicato. Sembrava attirare batteri e virus, era perennemente raffreddato e oltretutto andava soggetto a delle fastidiosissime otiti. Inevitabilmente assumeva antibiotici, il pediatra non era uno dalla medicina facile, ma sosteneva che in caso di infezione batterica non prendere antibiotici sarebbe stato un errore e avrebbe reso Marco ancor più gracile di quanto non fosse già. Daniela aveva piena fiducia in questo pediatra, tutte le sue diagnosi erano state precisissime, non aveva mai prescritto un medicinale che non fosse estremamente indispensabile. Gabriella invece sosteneva che Marco prendeva troppi medicinali, e che si sarebbero dovuti rivolgere al pediatra che curava il nipote di una sua cara amica, che era ASSOLUTAMENTE CONTRARIO agli antibiotici. Gabriella lo diceva proprio così, a lettere maiuscole, come quando affermava che lei SAPEVA. Si sentiva distintamente, quando parlava a lettere maiuscole, con quel fastidiosissimo tono didascalico col quale dispensava il suo malcelato disprezzo. Ebbene, un giorno Marco si era svegliato con una fioritura di bollicine sulle braccia e sulla pancia. Come si era poi verificato, era il primo segnale di intolleranza al latte, peraltro già vaticinato dal pediatra mesi prima, che aveva fatto un’affermazione del tipo “non mi stupirebbe, vista la situazione, e in particolare l’apparente delicatezza delle vie aeree superiori, che prima o poi si manifestasse una qualche forma allergica”. Ma Gabriella non aveva perso occasione per tirare la sua stoccata: “Lo sapevo, io, che gli sarebbe venuto un eczema, con tutti quegli antibiotici!”
Daniela era oramai al limite della sopportazione. Ce l’aveva con Gabriella, ma ce l’aveva anche con Luciano, e anche con se stessa. Non riusciva a metterla a posto, era un suo limite educazionale, non si maltratta una persona grande, men che meno la madre di suo marito. L’educazione ricevuta era troppo condizionante, la costringeva a mordersi la lingua ogni volta che le saliva alla bocca una risposta acida. E anche Luciano, santa pace, sembrava avesse le fette di prosciutto sugli occhi! Accettava tutto da Gabriella, e passi che si facesse trattare come un bambino, con continui suggerimenti sul suo lavoro (la maggioranza dei quali erano delle solenni castronerie, peraltro) e sul comportamento in generale, ma quando si trattava di sua moglie, e se non lei di suo figlio, avrebbe dovuto accorgersi della perfidia, della cattiveria, avrebbe dovuto reagire! Daniela cercava di essere tollerante, cercava di mettere in pratica i precetti cristiani, cercava di volerle bene, ma era veramente difficile. La verità era che la sua vita sarebbe stata infinitamente più semplice se lei non ci fosse stata.
E poi, a un certo punto, aveva avuto l’ictus. Come ogni domenica l’avevano invitata a pranzo, e avevano finito di mangiare. Daniela aveva appena messo Marco a fare il riposino e stavano prendendo il caffè, quando nel bel mezzo di una frase Gabriella si era interrotta, un’espressione sorpresa sul viso, la bocca semiaperta come a dire “Ohhhh!”, e si era accasciata sul tavolo da pranzo, abbattendosi sulla tazzina di caffè che aveva davanti. Daniela ricordava distintamente di essersi concentrata sulla goccia di caffè che era schizzata dalla tazzina che si stava spaccando, che aveva disegnato una parabola andando a cadere sulla tovaglia, lasciando una goccia scura sul bianco candido. Luciano aveva immediatamente tentato di rianimarla, ma poi si era precipitato al telefono e aveva chiamato il 118. Nel giro di mezz’ora erano al pronto soccorso, e dopo la TAC i medici avevano detto che si poteva solo aspettare. Aveva passato la notte in ospedale, la mattina dopo si era svegliata ma sembrava inebetita. Non parlava, aveva lo sguardo vuoto. Se le si rivolgeva la parola, a volte si voltava verso chi parlava, a volte no. Sembrava come se fosse ipnotizzata. L’avevano portata a casa, e i primi giorni avevano fatto i turni, Daniela e Luciano. Poi avevano capito che non si poteva risolvere la faccenda in quel modo. Per prima cosa avevano ingaggiato una badante, e parallelamente avevano avviato le pratiche per l’interdizione, che erano state per fortuna incredibilmente rapide. Avevano così potuto vendere la loro casa e quella di Gabriella, e acquistarne una più grande dove sistemarsi tutti insieme. Le cose andavano abbastanza bene, nei limiti in cui una situazione come questa può andar bene, quando sei settimane prima Gabriella era improvvisamente peggiorata. Lo stato generale era sempre più spento, ai limiti del catatonico. Mangiava con sempre maggiore difficoltà, e solo Daniela riusciva a farle ingoiare qualche boccone di cibo semiliquido. Il medico curante aveva suggerito di inserire il sondino naso gastrico e di aspettare, senza azzardare alcuna ipotesi sull’evoluzione della situazione. Luciano era molto preoccupato, soprattutto perché non riusciva a capire come sarebbe finita. Luciano aveva una mentalità deterministica, che si portava dietro dai tempi dell’università; aveva iniziato ingegneria, prima di spostarsi ad economia e commercio, e aveva riportato buoni risultati negli esami di matematica. Quello che lo aveva fatto arrendere era stato l’impatto con la fisica, ma la matematica lo appassionava davvero, e il suo modo di ragionare era improntato alla razionalità estrema, all’individuazione e all’analisi dei nessi di causalità tipici della dimostrazione dei teoremi matematici. Per cui trovarsi in una situazione dove i termini del problema non erano neanche completamente noti, dove poteva accadere tutto e il contrario di tutto, era qualcosa che non solo Luciano non era abituato a gestire, ma lo destabilizzava fortemente, indebolendo anche la sua capacità decisionale. E così era stata Daniela, alla fine, a prendersi carico dei problemi, a prendere le decisioni, a concordare soluzioni, ad ascoltare i medici.
E ora era lì, nella stanza di Gabriella. Si recava nella stanza spesso, per controllare che tutto fosse in ordine, che la temperatura della stanza fosse corretta, che Gabriella avesse una temperatura corporea normale, che la pompa del cibo artificiale fosse funzionante, che il sondino non fosse otturato. Che le cose fossero “a posto”, insomma.
Mentre era lì che guardava Gabriella, Daniela improvvisamente si paralizzò. Gabriella aveva spalancato gli occhi. Una mano si era mossa e le aveva afferrato il polso in una morsa d’acciaio. Stava aprendo la bocca per dire qualcosa.
Daniela era un’appassionata di Stephen King, e ricordava distintamente il pezzo di “Pet Semetary” dove il medico, appena arrivato a Ludlow, Maine, dopo pochi giorni di incarico come medico presso l’università, si era trovato faccia a faccia con uno studente vittima di un incidente che lo aveva ridotto in coma. Prima di spirare, Victor Pascow, questo il nome dello studente, aveva aperto gli occhi e gli aveva parlato. La cosa era incredibile in quanto Pascow non avrebbe potuto parlare, visto che aveva il collo spezzato e metà testa fracassata.
Nella stanza di Gabriella la situazione era molto diversa, e molto meno splatter. Ma l’impossibilità di parlare era identica, pensava Daniela, e non poté impedire alla sua pelle di accapponarsi. Un brivido le scese lungo la schiena. Gabriella la guardava dritto negli occhi. Sussurrava qualcosa. Daniela non riusciva a capire, avvicinò l’orecchio alla bocca di Gabriella. “Uccidimi. Ti prego. Non posso vivere così. Non è vita. Ti prego. Uccidimi”. Daniela si rialzò di scatto. La stretta della mano di Gabriella sul polso era fortissima. Gabriella aveva gli occhi piantati nei suoi. Le sue labbra formarono nuovamente la stessa parola. “Uccidimi”.
Gli occhi di Gabriella si chiusero e la stretta si allentò, la mano ricadde inerte lungo il bordo del letto. Daniela rialzò meccanicamente il braccio e lo pose sul letto, accanto al corpo. Il respiro di Gabriella era normale, la pelle era fresca ma non fredda, Daniela sentì il polso e le sembrò tutto regolare. Daniela invece aveva il cuore a mille, il respiro affannoso. Non riusciva a capire se aveva avuto un’allucinazione o se quanto ricordava era successo davvero. Si guardò il polso. Era tutto rosso, in corrispondenza della stretta della mano di Gabriella. Non aveva sognato. Era tutto vero.
Daniela uscì dalla stanza. Andò in bagno e vomitò. Non sapeva cosa fare. Con chi parlare. A chi chiedere consiglio. Si sentiva completamente svuotata. Ma che razza di maledizione le era capitata tra capo e collo? Proprio a lei, doveva fare quella richiesta? Proprio a lei, che sinché era stata bene l’aveva detestata con tutto il cuore, e non le aveva augurato alcuna disgrazia solo per la sua formazione cattolica? Proprio a lei, che per l’appunto della religione cattolica aveva sempre fatto una bandiera? Cosa avrebbe potuto fare? Cosa avrebbe DOVUTO fare?
Il turbamento di Daniela nasceva soprattutto dagli occhi di Gabriella. In quegli occhi aveva letto una sofferenza infinita, e al di là delle poche parole pronunciate, Daniela aveva “visto” il dolore di Gabriella, aveva percepito l’orrore di trovarsi imprigionati in un corpo che era diventato solo una trappola, di essere impossibilitati a fare qualunque cosa, di vivere come un vegetale. Il non vivere. La negazione stessa della vita. Ridotta a un’essenza impossibilitata a esprimersi, a comunicare, a rapportarsi con gli altri. Impossibilitata anche a pregare. Tutto questo le era arrivato forte e chiaro dallo sguardo di Gabriella, con una comunicazione che era avvenuta su un piano che andava al di là dei cinque sensi. Ma le sensazioni vissute, le emozioni provate, erano scolpite nella mente e nell’animo di Daniela in modo indelebile.
Quella notte la passò praticamente in bianco. Ogni volta che si assopiva, risentiva la stretta sul polso, come una morsa, e rivedeva lo sguardo penetrante di Gabriella con gli occhi piantati nei suoi. Risentiva il sibilo della sua voce nell’orecchio, e quella parola, “Uccidimi”, riecheggiava mille volte nella sua mente.
Il giorno dopo andò a confessarsi, e nel segreto della confessione chiese al parroco, che conosceva bene, che cosa pensava dell’eutanasia. Il parroco disse che il quinto comandamento era chiaro. Non c’era molto altro da aggiungere. Nessun essere umano ha il diritto di togliere la vita. Daniela immaginava che quella sarebbe stata la risposta. Ma da don Luigi, che l’aveva comunicata, cresimata, e poi sposata, francamente si aspettava qualcosa in più.
Tornò a casa, stanca come se avesse spaccato pietre per tutta la giornata. Non riusciva a pensare ad altro che non fosse quella scena che aveva vissuto. Era anche andata a riprendere “Pet Sematary”, e l’aveva colpita la somiglianza delle scene. Al netto della stretta al polso, e del sangue del libro, il succo era lo stesso. Una persona che non era in grado di parlare aveva parlato. Nel caso del libro, per fare delle rivelazioni che si sarebbero rivelate fondamentali nel prosieguo della storia. Nel suo caso, per metterle un macigno sul cuore.
Daniela si sedette alla scrivania, accese il pc e cercò con google “dolce morte”. Scoprì che il farmaco per eccellenza era il Nembutal, quello con cui si era suicidata Marylin Monroe. Ovviamente non era venduto da nessuna parte, né c’era modo di procurarselo su siti esteri. Scrisse allora “Nembutal” nella maschera di ricerca di google. La prima pagina di risultati era solo di definizioni, e articoli su Marylin. Navigando qui e là scoprì varie cose, prima tra tutte che il pentobarbital, questo il nome del principio attivo alla base del Nembutal, era utilizzato nelle iniezioni letali in USA (lì era usato come primo impatto per far addormentare rapidamente il condannato), ma era popolarissimo nelle pratiche di eutanasia e di suicidio assistito; scoprì anche che c’era un mercato nero, cui accedeva anche chi usava i barbiturici per dormire. Sembrava che il Nembutal fosse tra i più efficaci, anche se qualcuno lamentava fastidiose controindicazioni. Si parlava di farmacie cinesi, di imbrogli, e di kit per capire se il preparato ricevuto era effettivamente pentobarbital. Riuscì anche a farsi un’idea di massima del prezzo, che si aggirava intorno ai 30 dollari per grammo. Considerando che la dose letale era 15 grammi, con 450 dollari si poteva pensare di comprare un kit. Girovagando ancora, si imbattè in un blog, dove c’erano molte richieste su come procurarsi il Nembutal. Nessuno riceveva risposta, ma notò che tutti lasciavano un indirizzo email. Daniela, senza quasi rendersene conto, iniziò a scrivere, e seguendo lo stile asciutto degli altri commenti, scrisse semplicemente che le serviva sapere come procurarsi del Nembutal, e lasciò il suo indirizzo email.
Nei giorni seguenti Daniela non riuscì a pensare ad altro che a questo. Continuava a sognare Gabriella, ma i sogni andavano ben oltre quel che era realmente successo. A volte Gabriella si alzava e le parlava a voce alta, a volte l’abbracciava e si scioglieva in un pianto dirotto, a volte si disfaceva sotto i suoi occhi come in quei film di vampiri di serie B. Una sola cosa restava costante in tutti i sogni, ed era la richiesta di Gabriella. Pronunciata in modo chiaro, sussurrata, letta sulle labbra, ma la parola “uccidimi” era sempre presente. Daniela si svegliava al mattino più stanca di quando era andata a dormire, ma quello che più la disturbava era che il pensiero di Gabriella non l’abbandonava mai per l’intera giornata. Iniziava a domandarsi davvero se fosse giusto mantenerla in vita contro la sua volontà. Si confrontò nuovamente con don Luigi, stavolta non nel confessionale. Lo andò a trovare e parlarono. La posizione della Chiesa era evidente, chiara e cristallina. Nessuno, nessuno aveva il diritto di privare della vita un altro essere umano. Neanche come atto caritatevole. Neanche come atto autoinflitto. Anche il suicidio era condannato senza appello. Era peccato mortale. E però don Luigi non seppe dirle con precisione se chi commette un atto di eutanasia finisca o meno all’inferno, se la visione dell’Altissimo gli sia preclusa per l’eternità o meno.
In tutti questi ragionamenti ogni tanto Daniela si domandava perché si facesse tutti questi scrupoli. Perché si ponesse tutti questi problemi nei confronti di una persona che l’aveva fatta soffrire così tanto. E si rispondeva che per lei l’amore per il prossimo non era un vuoto precetto, lei cercava di applicarlo quotidianamente. Lei era una donna d’amore. E come tale si comportava, in modo istintivo quanto a volte apparentemente incoerente. E vedere Gabriella in una condizione tanto disgraziata aveva immediatamente cancellato il passato, lasciando qualche cicatrice, ma che doleva solo ogni tanto. Il resto era un misto di pietas Virgiliana e di puro amore.
Il sabato successivo, quando aprì la posta elettronica, vide la risposta al suo messaggio. C’erano dettagliate istruzioni per ordinare il Nembutal. E anche per ordinare il kit di verifica. Daniela ordinò il farmaco e il kit. Fece tutto di corsa, si disse che in fondo non stava facendo nulla, ancora, e che avrebbe pagato con dei piccoli risparmi che aveva messo da parte per fare un regalo a Luciano. Se avesse deciso di lasciar correre, avrebbe buttato via del denaro. E basta.
La spedizione era via corriere, e non erano siti cinesi ma europei. Dopo tre giorni arrivarono due pacchettini in rapida sequenza. In uno c’era una boccetta con una polvere bianca. Nell’altro un kit costituito da una boccetta di reagente con una pipetta e una ciotolina. Daniela seguì le istruzioni per verificare che la polvere bianca fosse effettivamente Nembutal, il test risultò positivo. Daniela sapeva che sarebbe bastato inserire il Nembutal, una volta sciolto in acqua distillata, nella flebo che Gabriella manteneva costantemente per idratarsi. E nel giro di pochi minuti, il tempo per la soluzione di entrare in circolo, sarebbe finito tutto.
Daniela era arrivata al momento del dunque. E non aveva la più pallida idea di cosa fare.
Iniziò a pensare. Cercò di immedesimarsi. Cercò di immaginare cosa si potesse sentire, nell’essere così totalmente dipendenti da qualcuno. Nel non potersi esprimere. Nel non poter articolare verbo, nel non essere padroni delle proprie membra, del proprio corpo. Cosa si potesse mai provare ad essere una scatola vuota impossibile da governare. Cercò di raffigurarsi la disperazione, la paura, l’alienazione. Pensò cosa potesse essere vedere Marco, suo figlio, vedere il suo sguardo addolorato, percepire il peso che avrebbe rappresentato per lui una disgrazia di questo tipo, pensò quanto impatto poteva causare sugli altri. Pensò che se fosse capitato a lei, lei non avrebbe voluto continuare a vivere. Ma poi un timido pensiero si affacciò, o meglio dal dietro del cervello dove era stato confinato venne avanti e si alzò in piedi, per farsi vedere. Il pensiero si chiamava “istinto di sopravvivenza”. Daniela pensò che l’istinto di sopravvivenza avrebbe potuto prendere il sopravvento. Che l’attaccamento all’esistenza avrebbe potuto far passare in secondo piano tutta la sofferenza per sé e per gli altri. Pensò che l’istinto di sopravvivenza avrebbe potuto prevalere sulla dignità. E in quel momento, proprio mentre questo pensiero le arrivava chiaro e nitido in testa, Daniela rivide nitidamente quanto era accaduto quel giorno nella stanza di Gabriella. Lo rivisse come se stesse avvenendo in quel preciso istante. Negli occhi di Gabriella vide la determinazione, e tutta la sofferenza derivante dalla sua condizione. E capì che la sofferenza doveva essere enorme, per poter prevalere sull’istinto di sopravvivenza. Daniela si alzò e si diresse in cucina, aveva sete. Sulla soglia della porta della cucina fu folgorata da un pensiero. Il Dio in cui credeva Daniela era il Dio dell’amore. Anzi. Dell’Amore. E lei, assecondando la volontà di Gabriella, avrebbe compiuto un atto di Amore. Di Amore Estremo. E Dio, il suo Dio, il Dio dell’Amore, avrebbe capito. Daniela aveva deciso. Andò a preparare l’iniezione.