Orologio biologico e maternità II – Le risposte

Ho ricevuto 16 commenti ieri, sul post “Orologio biologico e maternità”. Pochi hanno capito cosa volessi dire, e quindi penso di essermi spiegato male. Ho pensato che, in considerazione del fatto che ci sono molte cose che accomunano vari commenti, sarebbe stato più efficace rispondere a tutti tramite un altro post.

Citerò alcune frasi cui voglio dare delle risposte puntuali, ma prima vorrei fare qualche considerazione di carattere generale.
Mi sembra che parlare di genitorialità, quando a farlo è un maschio, susciti un gran casino. Io non ho partorito. Ma ho fattivamente contribuito prima della gravidanza, e in tutta la prima infanzia, alla crescita delle mie figlie. Le scelte fatte sono state sempre condivise, non ci sono mai state scelte individuali fatte contro la volontà dell’altro. E no, non siamo la famiglia del Mulino Bianco. Anzi. Io credo fermamente che l’arrivo di un figlio sia un terremoto per la coppia. E che ci voglia un enorme amore, per superare il terremoto. Gli equilibri cambiano in modo radicale, e sicuramente io non so cosa significa sentirsi madre, ma so molto bene cosa significa osservare quella che sino a ieri era la tua compagna di giochi diventare un’altra persona, che sono più le volte che non comprendi che quelle che capisci. E conosco molto bene lo sforzo di spostarsi per recuperarlo, l’equilibrio. E a chi mi dà del superficiale perché parlo di incoscienza e di elasticità, dimostrando ancora una volta che quando si indica la luna c’è sempre qualcuno che guarda il dito, rispondo che incoscienza ed elasticità sono materiale di prima scelta, quando si tratta di spostare un equilibrio e ricrearlo da zero. La pizza e la colica sono dei simboli. Dietro questi simboli c’è un mondo di sensazioni e di sentimenti. Il mio punto è che le esigenze dei bambini dovrebbero sempre essere anteposte a quelle dei genitori, per la semplicissima ragione che il bambino non ha chiesto di venire al mondo. E quando la mia compagna di giochi è diventata madre, non ho pensato a me, ho pensato alla figlia. Procreare è innanzitutto un atto di egoismo, che risponde a degli stimoli provenienti dalla tanto vituperata Natura. Ché se non ci fosse l’istinto di procreazione non staremmo neanche qui a parlare. A questo proposito, aggiungo anche, visto che l’infertilità sembra un tema dominante, che (non lo dico io, lo dicono i centri per la procreazione) una delle principali cause di infertilità è proprio la ricerca della gravidanza in età avanzata. Un bel circolo vizioso insomma.

“Credo che siamo in un vespaio in cui la sola che possiamo dire è che ciascuno pensi per sè, ciascuno agisca per il suo bene senza guardare gli altri, che anche loro sanno.”

Mi pare che il senso sia che qualunque scelta individuale è indiscutibile. Come se esprimere un’opinione, osservare un costume che cambia, domandarsi se questo modello sociale risponde realmente alle esigenze delle persone, fosse mettere in discussione le scelte altrui. Rivendico il diritto di esprimere un’opinione, specie se riguarda, per l’appunto, un modello sociale che francamente condivido poco. A questo proposito, siccome sul piano squisitamente antropologico sono abbastanza convinto che molte responsabilità siano ascrivibili al berlusconismo, invito alla lettura di un eccellente libello di Enrico Brizzi, “Vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio”, che analizza chirurgicamente lo spostamento dei costumi indotto dalla tv.

“diteci anche a quanti anni con precisione la natura ha deciso che io partorisca figli sani e perfetti e speciali”

Dispiace sentire tanta rabbia. Se sfogarsi dando del minus habens a chi scrive aiuta, per me va anche bene. Ma nel merito, è di tutta evidenza che non è questo il punto. Il punto è che, alla Catalano, è meglio fare figli da giovani, potendo, piuttosto che da vecchi. Non si parla di figli perfetti o speciali, o di ricette per la felicità.

“Veniamo al mondo in un certo contesto, e quella è l’eredità con cui facciamo i conti, nel bene e nel male, nei limiti e nelle possibilità.”

Considerazione molto acuta, e molto condivisibile. Ma di nuovo, non era mia intenzione identificare una ricetta per la felicità. La considerazione di fondo è che un modello sociale come questo sta portando verso una società di anziani. Che si riflette anche nel commento seguente

“probabilmente (e se é un po’ sfigato) quel figlio si troverà a doversi prendere cura di un genitore troppo presto… quando ancora avrà bisogno di qualcuno che, al contrario, si prenda cura di lui…”

E questa è un’altra delle iatture del modello sociale sotteso dall’aumento dell’età genitoriale. Faccio un figlio a 43 anni, quando ne avrà 35 io ne avrò quasi 80. E per le stesse considerazioni che valgono per chi oggi fa i figli in ritardo, questo 35enne starà ancora lottando per trovare un’identità professionale e personale, non avrà ancora neanche deciso se procreare o meno, e già si trova sulle spalle la gestione di un anziano genitore.

“Più che l’orologio biologico, sarebbe meglio studiare un modo per far entrare prima i giovani nel mondo del lavoro con qualifiche adatte, perché è una vergogna farci sostare anni e anni in università per poi non avere alcuna possibilità di lavorare”

“Tutte le ragioni che esponi sono sacrosante, ma si scontrano un po’ con la realtà, secondo me. La natura fa i figli, ma i genitori li crescono e li mantengono, e secondo me a 25 anni pochi sono “pronti” ad essere genitori.”

Questi commenti sono quelli che mi aspettavo. Il punto vero è il modello sociale che, almeno qui in Italia, considera i giovani non pronti per prendersi responsabilità. E questo non vale solo per la famiglia, ma anche e soprattutto nel mondo del lavoro. Innanzitutto il problema dell’ingresso nel mondo del lavoro. Ma al netto della crisi e al netto della difficoltà iniziale, quello che è terribile è che non sono riconosciuti i valori in campo, essendo l’età ancora oggi una discriminante feroce. Un medico che conosco, emigrato in USA, a 35 anni opera a cuore aperto. In Italia a 35 anni sei fortunato se partecipi all’intervento come ferrista. Certo bisogna esser bravi, per operare a cuore aperto. Ma qui, anche se sei bravo non succede nulla.

“credo che il disccrso di wish fosse più legato alle condizioni affettive che a quelle economiche.”

Lo dicevo in premessa, credo sinceramente che nel momento in cui si compie un atto intrinsecamente egoistico, sia appena giusto tenerne conto per tutta la vita, anteponendo le esigenze del figlio alle proprie. Altrimenti dov’è l’evoluzione?

“Ahimè non condivido proprio nulla, ancor meno l’ultima parte che ho preferito non commentare perché pare proprio brutto pensare in termini di “ceppo” da salvaguardare.”

Francamente non vedo la bruttezza del ragionamento. Non è un problema di razzismo, e anche qui se ho lasciato intendere questo mi spiace, perché non è questo il senso. Io credo sinceramente che l’eredità culturale di un popolo debba essere salvaguardata. Sul mio blog avevo scritto un post su questo, sul linguaggio, sulla forza della tradizione. La tradizione si perpetua se il popolo esiste. Se il popolo non esiste più la tradizione va perduta. Non mi pare un concetto complesso. Se continuiamo ad avere un tasso di natalità negativo, il popolo che custodisce la tradizione plurimillenaria che arriva dai Romani, non ci sarà più. E’ brutto voler preservare questa tradizione per il tramite della conservazione di un popolo? Secondo me no. Secondo me è l’opposto. Secondo me è un bel concetto. Bello nel senso più pieno del termine.